Il ritorno al sistema proporzionale è davvero la fine di un mondo?

Si moltiplicano le preoccupazioni per la prospettiva del ritorno al sistema elettorale proporzionale della tanto odiata prima Repubblica perché gli elettori – si dice – perderebbero la possibilità di andare alle urne col diritto di scegliere non solo il partito ma anche la coalizione o la formula di governo. Non è però per niente vero che questo diritto fosse stato loro negato prima dell’avvento del sistema maggioritario, introdotto nel 1993 e sperimentato già l’anno dopo con la nascita, o l’illusione della nascita della cosiddetta seconda Repubblica.

Dal 1947 in poi, finita la fase emergenziale e post-bellica dei governi di unità nazionale, quando si ruppe il rapporto fra la Dc e il Pci dopo il famoso viaggio del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi negli Stati Uniti d’America, gli elettori italiani sono sempre, o quasi sempre andati alle urne sapendo con chi avrebbero poi cercato di accordarsi, per governare, i partiti ai quali avevano deciso di dare il loto voto.

Nel 1948, pur col sistema proporzionale, gli italiani andarono a votare scegliendo tra il “fonte popolare” di sinistra, composto da comunisti e socialisti, e la Dc che aveva già prenotato la prosecuzione della collaborazione con i socialdemocratici, i repubblicani e i liberali. Dalle urne uscì chiaramente una maggioranza di centro.
Nelle elezioni successive, del 1953, il centrismo degasperiano tentò addirittura di conquistare un premio di maggioranza, scambiato per “truffa” dalla sinistra, che dopo una quarantina d’anni vi fece però ricorso apprezzandone lo spirito democratico.

Si andò avanti con il centrismo per parecchio, sino a quando i socialisti e i democristiani non cominciarono, diciamo così, ad annusarsi: i primi rompendo con i comunisti e gli altri soffrendo la collaborazione con i liberali. Prima di passare tuttavia dal centrismo al centrosinistra la Dc tenne nel 1962, con Aldo Moro segretario, un congresso a Napoli assai impegnativo per segnare la svolta. Pertanto alle elezioni del 1963 tanto gli elettori democristiani quanto gli elettori socialisti sapevano benissimo che i loro rispettivi i partiti avrebbero poi governato insieme.

Interrotto alla fine del 1975 il centrosinistra con l’annuncio del segretario del Psi Francesco De Martino di non volere più fare accordi con la Dc senza l’appoggio o il concorso del Pci, gli elettori nel 1976 votarono praticamente per la prima volta senza una prospettiva politica precisa. E il risultato fu neutro. Non uscirono vincitori. O ne uscirono due, come disse Moro parlando della sua Dc e del Pci berlingueriano. Non due vincitori diversi fra Camera e Senato, come si teme ora, ma due vincitori diversi su tutto il campo, che non potendo prevalere l’uno sull’altro in Parlamento per mancanza di alleati e di numeri, furono costretti alla cosiddetta solidarietà nazionale, con due governi monocolori del democristiano Giulio Andreotti appoggiati esternamente, e in modo determinante, dai comunisti.

Finita questa maggioranza per iniziativa del Pci, che preferì tornare all’opposizione nelle prime settimane del 1979, e cambiata la linea del Psi con il rafforzamento dell’autonomista Bettino Craxi alla segreteria, dopo le elezioni politiche anticipate di quell’anno si passò per varie fasi al cosiddetto pentapartito, che era poi la somma del centrismo col centrosinistra, comprensivo anche dei liberali. E così, sempre nella preventiva consapevolezza degli elettori, si proseguì sino alle elezioni ordinarie del 1992: le ultime svoltesi col sistema proporzionale, prima del referendum elettorale del 1993 che segnò il passaggio al metodo prevalentemente maggioritario.

Il passaggio dal sistema proporzionale al maggioritario avvenne nella beata illusione che gli elettori avessero conquistato finalmente il diritto sino ad allora negato – ma abbiamo già visto che non era vero – di scegliere non solo il partito ma anche la coalizione o formula di governo, mettendola al sicuro da tradimenti e altre sorprese. Beata illusione, appunto.

Nel 1994 la combinazione di centrodestra improvvisata da Silvio Berlusconi con la curiosa alleanza al Nord con la Lega di Umberto Bossi e al Centro-Sud con l’ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, per quanto tradottasi in un governo che si riteneva destinato a cementare col potere partiti territorialmente scontratisi fra di loro, durò poco più di sei mesi. A fine anno era già sfasciata. E fu sostituita con sollievo in quattro e quattr’otto dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro con un governo tecnico del ministro del Tesoro uscente Lamberto Dini.

Le elezioni anticipate del 1996 furono vinte da una coalizione di centrosinistra capeggiata da Romano Prodi ma caduta dopo due anni e mezzo per mano della Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti. Che Massimo D’Alema sostituì nella maggioranza, pure lui in quattro e quattr’otto, alle spalle degli elettori, con un partitino di centro improvvisatogli apposta dall’immaginifico Francesco Cossiga. Ma dopo meno di due anni anche quel governo cadde, sostituito nuovamente in quattro e quattr’otto con Giuliano Amato solo per portare il paese l’anno dopo alle elezioni miracolosamente ordinarie.

Nel 2001 tornò a vincere Berlusconi con una rinnovata coalizione di centrodestra, grazie al recupero dell’alleanza con Bossi. Ma, per quanto durata un’intera legislatura fra liti e sgambetti dei centristi, riusciti persino a dividersi, come l’atomo, fra Pier Ferdinando Casini e Marco Follini, la maggioranza non riuscì neppure ad approvare unita l’ambiziosa riforma federalista della Costituzione. Che non a caso fu bocciata dagli elettori dopo un turno elettorale che aveva riportato al governo Prodi con una coalizione tanto eterogenea da cadere in meno di due anni, trascinandosi appresso la legislatura.

Tornò quindi il Rieccolo Berlusconi con un centrodestra che il Cavaliere riteneva di avere cementato ben bene unificando in un solo partito – il PdL – la sua Forza Italia e la destra di un Fini promosso persino alla Presidenza della Camera. Ma costui, facendo incrociare le sue ambizioni personali, i guai giudiziari e di letto dell’alleato e una crisi economica che ancora ci trasciniamo appresso, sfasciò tutto, anche se stesso.

Abbiamo così dovuto sorbirci un anno e mezzo di duro governo tecnico di Mario Monti e persino la fine del tanto vantato “bipolarismo” prodotto – si era detto – dal sistema maggioritario. Sono subentrate le cosiddette larghe intese, dalle quali sarà ben difficile liberarsi, anche se non potranno certo essere gli elettori a stabilirne i confini. Berlusconi vi si è appena prenotato incontrando a Malta i suoi amici del partito popolare europeo.

Ora si pretende che, nel caos politico e istituzionale creatosi con la bocciatura quasi a furor di popolo di una pasticciata ma pur sempre riforma costituzionale e con ben due leggi elettorali affidate alla sartoria della Corte Costituzionale, per non parlare dei vaffa grillini, scambiassimo il ritorno al sistema proporzionale per la fine del mondo. Via, non esageriamo.

Il ritorno al sistema proporzionale è davvero la fine di un mondo?ultima modifica: 2017-03-31T10:42:28+02:00da bezzifer
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