Cronache di un governo mai nato: così Renzi con molta lungimiranza ha fatto morire la trattativa Pd-Cinque Stelle.

Risultati immagini per Cronache di un governo mai nato: così Renzi con molta lungimiranza ha fatto morire la trattativa Pd-Cinque Stelle.Cronache di un governo mai nato: così Renzi ha fatto morire la trattativa Pd-Cinque Stelle.Le aperture di Di Maio, la tessitura di Minniti, le speranze di Mattarella, il ruolo decisivo di Renzi: abbiamo ricostruito che cosa accadde nei giorni in cui sembrava davvero poter nascere l’esecutivo giallo-rosso, che avrebbe potuto cambiare la Storia di questi ultimi dodici mesi.

Questa è la storia di un governo mai nato, dell’altra strada che poteva prendere questa legislatura, dei protagonisti che hanno fatto nascere e morire, nel giro di una settimana, il governo Fico sostenuto da una maggioranza Cinque Stelle-Pd. È una storia di dominio (quasi) pubblico nei palazzi romani, ma che si tace appena si varca l’uscio e si cammina nel Paese reale, tra gli elettori e i militanti. Un po’ per il rimpianto di quel che avrebbe potuto essere la storia di questi ultimi dodici mesi, se non ci fosse stato il governo gialloverde. Un po’ perché nel frattempo il solco già enorme tra Pd e Cinque Stelle è diventato una voragine. Un po’ perché non tutti i protagonisti di questa vicenda l’hanno raccontata giusta, in quei giorni. Ecco perché questa è una storia senza nomi e cognomi, né virgolettati. Chiunque tra i protagonisti di quei giorni ha accettato di parlare, l’ha fatto con la promessa dell’anonimato.

Andiamo con ordine, però. E riavvolgiamo il nastro al terremoto elettorale del 4 marzo, con il Movimento Cinque Stelle primo partito, con la Lega prima forza del centro destra e col Partito Democratico al suo minimo storico. È in quelle ore febbrili, mentre Di Maio e Salvini esultano e Matteo Renzi valuta le dimissioni da segretario del Pd, che inizia il gioco delle alleanze e delle coalizioni parlamentari. La strategia del Movimento Cinque Stelle è chiara: andare al governo, non importa con chi. Nel centrodestra invece è il caos: Berlusconi vuole provare ad allargare la coalizione di centrodestra alle forze centriste del centro-sinistra, mentre Salvini tracheggia: per lui l’interlocutore privilegiato è il Movimento Cinque Stelle, che tuttavia ha immediatamente posto il veto su una coalizione che preveda la presenza di Berlusconi. Già a metà marzo, quando si tratta di allearsi sulle presidenze delle Camere, i dialoghi con Di Maio sono molto frequenti e prefigurano un’alleanza incardinata su una stretta sull’immigrazione e sulla revisione della legge Fornero. Per realizzare il suo disegno, l’alleanza giallo-verde, Matteo Salvini ha bisogno di tempo. Ed è in quell’intervallo di tempo che inizia la trattativa Cinque Stelle-Pd.

Manca il Pd, per l’appunto. Che già a partire dalla notte terribile del 4 di marzo aveva cominciato a dividersi proprio sulla prospettiva di una futuribile alleanza coi Cinque Stelle. Tra i favorevoli, il capofila è Dario Franceschini, che apre immediatamente a una possibile coalizione che veda il Pd tra le forze di governo. Tra i contrari, Matteo Renzi. «Senza di lui non si fa nulla», è la risposta che Di Maio e i suoi sherpa si sentono dare dai leader democratici, ogni volta che si accenna all’argomento di una possibile alleanza. Pallottoliere alla mano è quasi un’ovvietà: senza i voti dei renziani, soprattutto al Senato, non ci sono i numeri per un’alleanza Pd-Cinque Stelle. È Renzi che va convinto.

Renzi e Di Maio non si amano, questo è noto, ma nemmeno si detestano. Nel corso della legislatura precedente, i colloqui tra i due sono stati molto fitti e frequenti, soprattutto dopo che Renzi è diventato per la prima volta segretario Pd, nel dicembre del 2013. È a lui che Di Maio si rivolge, quando deve far passare un emendamento dei Cinque Stelle in legge di stabilità. È con lui che si scambia biglietti in aula, compresi quelli intercettati dall’obiettivo dei fotografi. Ed è con lui che Di Maio inizia la sua opera da pontiere: «Io non ho mai posto veti e non ho mai parlato di un Pd “derenzizzato”», dice a Repubblica in un’intervista del 7 aprile, dal titolo più che eloquente: “Al Pd dico: sotterriamo l’ascia di guerra e diamo un governo al Paese”. «Se rimaniamo ognuno sulle sue posizioni, non si va da nessuna parte – aggiunge -. Renzi stesso ha ammesso che la Buona Scuola non ha funzionato del tutto e doveva essere migliorata. Io credo che ci potranno essere molte più convergenze di quel che si crede».

Ha tre giorni di tempo, Minniti, per far iniziare le danze. La sua è una trattativa parallela a quella formale della delegazione del Pd, formata da Martina, Marcucci, Delrio e Orfini. Attorno, nei palazzi romani, sono tutti convinti che l’esito sarà positivo: «Preparati, lunedì avremo il governo», dice un gran commis di Stato a un politico di primo piano di centrodestra, incontrato per caso in aereo, direzione Milano

Il messaggio arriva a destinazione. Franceschini invita alla riflessione, Orlando pure. I renziani affidano i messaggi di chiusura a seconde linee come Rosato e Morani, ma chi gli sta vicino descrive Renzi come molto combattuto. L’apertura di Di Maio lo ha destabilizzato. Sa bene che una sua apertura ai Cinque Stelle sarebbe clamorosa e molto difficile da digerire per i renziani ortodossi, ma sa bene anche che è lui il centro di tutto, che sarà la sua decisione a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Una centralità che da politico di razza è deciso a monetizzare. Nella sua testa c’è la poltrona di ministro degli esteri, che gli permetterebbe di fare quel che più gli piace: partecipare a incontri istituzionali all’estero, interloquire coi grandi del mondo, acquisire una dimensione politica sovranazionale. Dapprima riluttante, poi sempre meno, decide di accondiscendere alla trattativa. È il 9 aprile quando Di Maio fa quel che il Pd gli ha chiesto di fare: chiude le porte del governo, senza se e senza ma, a Silvio Berlusconi. Salvini, per allearsi con lui, deve rompere la sua coalizione. Il 13 di aprile, sul Corriere della Sera, Maria Teresa Meli, giornalista molto ben informata sui movimenti di Renzi e dintorni, annuncia che il Pd è pronto alla «fase due», quella del confronto con chiunque avrà l’incarico di governare. Dopo l’infruttuoso tentativo di Elisabetta Casellati, il 23 di aprile Mattarella, un lunedì, incarica il presidente della Camera Roberto Fico, il più a sinistra dei leader pentastellati. La strada per un governo Pd-Cinque Stelle sembra in discesa.

È qui che entra in gioco la figura di Marco Minniti. Ministro dell’interno in carica, phisique du role da uomo delle istituzioni, è l’uomo della quadratura del cerchio. Piace ai renziani e agli anti-renziani, piace ai Cinque Stelle – Di Maio il 5 aprile l’aveva inserito nella rosa dei ministri Pd che non gli dispiacevano, insieme (non a caso) a Martina e Franceschini. Soprattutto, piace al Quirinale l’idea che sia lui a gestire la trattativa sull’accordo, sul programma e poi sui nomi da inserire in un possibile governo giallo-rosso. Ha tre giorni di tempo, Minniti, per far iniziare le danze. La sua è una trattativa parallela a quella formale della delegazione del Pd, formata da Martina, Marcucci, Delrio e Orfini. Attorno, nei palazzi romani, sono tutti convinti che l’esito sarà positivo: «Preparati, lunedì avremo il governo», dice un gran commis di Stato a un politico di primo piano di centrodestra, incontrato per caso in aereo, direzione Milano.

Ma è proprio quando le cose sembrano andare per il verso giusto, che emergono le prime difficoltà. Due su tutte: il ruolo che avranno Renzi e Di Maio nella partita. Quest’ultimo, soprattutto, non si rassegna all’idea di non poter essere presidente del consiglio. In quelle settimane, sia Mattarella, sia il suo segretario generale Zampetti – mentore di Di Maio quando era vicepresidente della Camera – gli avevano assicurato che prima o poi l’incarico sarebbe arrivato. Dello stesso tenore, un colloquio informale con Paolo Gentiloni, nel suo studio di palazzo Chigi, in cui il presidente del consiglio in carica lo avrebbe invitato a provare la campanella, in quella che il giovane leader pentastellato interpreta come una prova tecnica di passaggio di consegne. Se la trattativa andasse in porto, Di Maio sarebbe fuori dai giochi, forse pure fuori dal governo, di sicuro insidiato nel ruolo dalla figura emergente di Roberto Fico, campano pure lui, sua vera e propria nemesi all’interno del Movimento. È anche per questo, per una questione di equità, che nei primi dialoghi informali col Pd, i Cinque Stelle chiudono all’ipotesi che Renzi possa fare il ministro degli esteri: «Al massimo, puoi tornare a fare il segretario del Partito Democratico», è la controfferta che arriva al rottamatore dal tavolo delle trattative. La risposta è un pensieroso silenzio.

È venerdì, ultimo giorno di consultazioni. Il Pd chiede al Colle un po’ di tempo in più, almeno fino a giovedì 3 maggio giorno in cui è prevista la direzione nazionale del Partito. Il Quirinale acconsente. Sono le ultime curve, le più difficili. Diversi esponenti del Pd ricevono messaggi in cui si dice loro di tenersi pronti, che dovranno entrare nel prossimo governo Fico. Di Maio, intanto, sta limando una lettera prevista per il Corriere della Sera – vero house organ della trattativa – in cui indicherà i punti programmatici del nuovo governo Cinque Stelle-Pd. La firma è la sua, i contenuti sono già condivisi coi pontieri democratici, Minniti in primis. La road map è tracciata: la lettera di Di Maio uscirà la domenica mattina. La sera stessa Matteo Renzi, a Che Tempo Che Fa, non chiuderà alla trattativa, rimandando la discussione alla direzione nazionale del partito del giovedì successivo. Dalla direzione arriverà il via libera alla trattativa e alla stesura di una bozza di accordo, che sarà poi sottoposto a un referendum tra gli iscritti, sul modello di ciò che aveva fatto la Spd in Germania solo qualche mese prima, per dare il via libera all’ennesima grosse koalition con la Cdu.

Tutto apparecchiato, insomma. Il problema è che Renzi non ci sta più. Non gli piace l’idea di stare fuori, certo, e si dice non piaccia nemmeno a molti dei suoi, Maria Elena Boschi più di tutti, al primo posto nella lista nera del Movimento Cinque Stelle

Tutto apparecchiato, insomma. Il problema è che Renzi non ci sta più. Non gli piace l’idea di stare fuori, certo, e si dice non piaccia nemmeno a molti dei suoi, Maria Elena Boschi più di tutti, al primo posto nella lista nera del Movimento Cinque Stelle. Non è solo quello, però. Anzi, a dire il vero è soprattutto altro. Più di ogni cosa, non gli piace il referendum tra gli iscritti che alle sue orecchie suona come un trappolone: a votare contro, a sfilarsi, a sentirsi traditi sarebbero stati soprattutto i suoi sostenitori, che in quelle ore stanno sparando a palle incatenate contro l’accordo con l’hashtag #senzadime, e che stanno ricoprendo di strali i membri della direzione favorevoli alla trattativa. Come avrebbe potuto riconquistare il partito, senza di loro? I muri del Nazareno narrano di discussioni dai toni particolarmente accesi con Maurizio Martina, il fedele vicesegretario che ormai Renzi ha spostato nella (lunga) colonna dei nemici. Sui giornali di sabato escono i primi retroscena: «Il patto (coi Cinque Stelle, ndr)? Una presa in giro», titola Repubblica. Chi conosce bene Matteo, sa che nella sua testa la trattativa è già chiusa. Chi spera siano solo capricci, continua a lavorare all’accordo.

Il giorno dello showdown è domenica 29 aprile. La lettera di Di Maio, pubblicata dal Corriere, è l’assist perfetto per i trattativisti democratici, al punto che molti dei protagonisti di quei giorni ammettono a mezza bocca – «diciamo che non è uscita a caso» – che sia stata scritta a quattro mani: dentro c’è la revisione del trattato di Dublino, il salario minimo, la trasformazione del Rei in reddito di cittadinanza, la riduzione delle tasse, un aumento dei fondi destinati alla sanità, la semplificazione dell’iter processuale e la digitalizzazione della giustizia italiana, i tagli agli sprechi e ai privilegi dei politici. Tutto molto generico, certo. Ma sufficiente a far dire a Renzi che sì, ci sono dei punti in comune, e che sì, se ne parlerà giovedì in direzione. Tutto questo non avviene. Renzi, da Fazio, chiude ogni spiraglio di trattativa: «Ci sono più similitudini tra Lega e Cinque Stelle. Ci provino loro a fare un governo, se ci riescono. Non possiamo fare il socio di minoranza della Casaleggio», è la chiosa lapidaria, la pietra tombale sul governo giallo-rosso. La replica di Di Maio è istantanea ed altrettanto dura: «Il Pd non riesce a liberarsi dell’ego smisurato di Matteo Renzi. Hanno detto no ai temi per i cittadini e la pagheranno», scrive. I dem nel frattempo sono increduli e storditi. I vertici, da Martina a Minniti non si capacitano della rottura di un metodo e di un’agenda che Renzi stesso aveva avallato. Lui si difende dicendo che non c’era spazio per nessuna trattativa, che il popolo democratico non avrebbe capito né avallato la scelta di andare al governo. Il resto è Storia.

Cronache di un governo mai nato: così Renzi con molta lungimiranza ha fatto morire la trattativa Pd-Cinque Stelle.ultima modifica: 2019-02-16T11:02:07+01:00da bezzifer
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