IL GRANDE ERRORE DELLA UE SULLA PROROGA DELLA BREXIT

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Detto fuori dai denti, la UE ha fatto un grosso errore a concedere al Regno Unito una proroga dell’art. 50 che arrivi e, realisticamente, superi la data delle elezioni europee. L’obiettivo, neanche troppo nascosto, era di spingere per il passaggio del Withdrawal Agreement (WA) alla prima data utile, maggio, o, in alternativa fare pressione per un chiarimento quantomeno elettorale della questione.

Per quanto il ragionamento di fondo possa essere comprensibile, e, in parte, lo è, Emmanuel Macron, il più rigido dei leader europei in merito alla Brexit, aveva ragione a chiedere norme più stringenti per la proroga. Non ultimo aveva ragione nel chiedere un meccanismo di autodifesa dei meccanismi decisionali della UE, in modo da ridurre possibili ostruzionismi dei deputati britannici nel Parlamento Europeo o del Governo al Consiglio Europeo.

Il rischio sarebbe stato il No Deal, ma, almeno, le istituzioni europee sarebbero state messe in sicurezza nel lungo e complicato processo di formazione della nuova Commissione.

Quello era ed è il principale interesse politico della UE.

LA SCELTA DELLA UE

Invece, sotto la coordinazione di Angela Merkel e del PPE, i governi europei hanno preferito evitare ogni possibile rischio di No Deal e di salvaguardare le economie dei paesi più esposti, ovvero Germania, Olanda, Danimarca, Spagna, Italia, ma, paradossalmente, la stessa Francia). Così, se i Comuni bocceranno per l’ennesima volta il WA di Theresa May, il Regno Unito si vedrà “costretto” a partecipare alla tornata elettorale europea di maggio, trasferendo il caos Brexit da Londra alle aule di Bruxelles.

L’ultimo sondaggio YouGov/Times vede primo il neonato Brexit Party di Nigel Farage al 23% seguito dai Laburisti di Jeremy Corbyn con 22%, i Tories di Theresa May al 17%, Green al 10%, LibDem e Change UK al 9%. Segue la nuova versione di estrema destra dell’UKIP di Gerard Batten al 6% e, infine, i “nazionalisti” scozzesi alleati a quelli gallesi al 5%.

Tradotto in seggi, vorrebbe dire circa 20 seggi a Farage, altrettanti ai Labour, e più o meno gli stessi ai Tories (non esistono attualmente calcoli accurati in merito). Così, per non pressare il Regno Unito verso un secondo referendum, la UE ne ha – nei fatti – creato uno informale: le elezioni europee.

IL VOTO BRITANNICO

Il Regno Unito vota per le politiche con un sistema maggioritario secco su collegi ben definiti e tradizionali. Si tratta di un meccanismo più simile a quello statunitense che ai maggioritari europei con una grande insistenza sul ruolo individuale dei singoli MP rispetto alle linee del partito. Non a caso, ai comuni, essi vengono chiamati non per cognomi, come in Italia, ma secondo il proprio seggio di provenienza o costituency.

Le europee, però, sono un’altra bestia: si vota col proporzionale di lista e questo genera un voto più assertivo che politico. Non a caso, nel 2014, lo UKIP allora guidato da Farage prese il 26% dei consensi eleggendo 20 europarlamentari che si tradussero in un unico seggio ai Comuni alle politiche del 2015 (con il 12.6% dei consensi).

Il clima da secondo referendum si vede confrontando i sondaggi delle europee con quelli di possibili politiche (dati Opinium/The Observer).

Labour (S&D): politiche 36% / europee 22% -14%

Tories (ECR): pol. 29% / eu. 17% -12%

UKIP (EAPN?): pol.11% / eu.  6% -3%

LibDem (ALDE): pol. 8% / eu. 9% +1%

Green (EELV): pol. 5% / eu. 10% +5%

Change UK (???): pol. 6% / eu. 9% +3%

Scozzesi e Gallesi (EELV): pol. 6% / eu. 5% -1%

Labour e Tories alle Europee subiscono una flessione del 26% dei voti che diventa, nella sua quasi totalità, voto per il Brexit Party. Sono le famigerate costituencies leavers dei due partiti principali, quelle per cui un accordo sul WA o un secondo referendum sono impraticabile, ed una piccola parte di pro-Europa che si sposta verso Change UK e Greens (partiti fortemente europeisti). Nota: i sondaggi dimostrino che il fronte pro-UE raggiunge già ora, senza il diretto appoggio dei due partiti maggiori, la maggioranza relativa:

UKIP + Brexit Party = 29%;

Lib+Change+Sco/Gal+Greens= 33%

MR. BREXIT: FARAGE

I dati dimostrano come Nigel Farage, da abile demagogo com’è, è partito lancia in resta cavalcandoi l clima da secondo referendum facendo incetta del voto pro-Brexit. Soprattutto è stato capace, ancora una volta di profittare, della debolezza dei due partiti maggiori, incapaci, ora come da tre anni, a gestire un paese spezzato in due dalla Brexit. Non hanno soluzioni per uscire dall’impasse, né possibilità di lanciarsi alla Farage nella mischia elettorale perché questo vorrebbe dire considerare già finito il WA su cui si dovrebbe votare a maggio come il progetto della Brexit alternativa su cui insiste, fino a dilaniare il partito, Jeremy Corbyn.

Non possono schierarsi apertamente contro il Brexit Party perché questo porrebbe le rispettive leadership contro quei collegi pro-Brexit da cui a) dipende qualsiasi tipo di accordo e b) sarebbero centrali in vista di nuove elezioni nazionali.

Non possono tantomeno seguire Farage sulla Brexit, perché Theresa May – leader di un partito letteramente spolpato dalla Brexit – ha escluso fin dall’inizio lo scenario del No Deal – quello “favorito” dal Brexit Party – e Corbyn è a capo di un partito con un elettorato in stragrande maggioranza anti-Brexit (il leader laburista è sotto forte pressione da parte degli iscritti per appoggiare apertamente il secondo referendum)

Questo dimostra una sola cosa: prima ancora dei cittadini britannici che ne subiranno direttamente le conseguenze, la vera vittima della Brexit è la politica britannica non più spaccato sull’asse Labour/Tories, ma su uno UE/NoUE o anywehere vs. somewhere, come lo definiscono i sociologi.

Una triste realtà che non è che la versione estrema di quello che succede negli altri paesi europei. Il problema è che questo marasma si riverserà nel parlamento europeo.

 

Stando ai calcoli, S&D diventerebbe il primo partito superando il PPE, EAPN – se Farage decidesse, cinicamente, di appoggiare quella destra estrema che egli, in patria, a parole, aborra – diventerebbe terza forza superando l’ALDE ed ECR sarebbe l’ago della bilancia, per la gioia dei polacchi. Per un numero indefinito di mesi – e con il rischio di un’ulteriore proroga – gli equilibri parlamentari a Bruxelles saranno falsati dalla presenza britannica.

In poche parole, il caos, uno per cui noi elettori europei non abbiamo votato. E dopo maggio, che succederà? Cosa capiterebbe se si decidesse di prorogare ancora l’art. 50 anche dopo ottobre 2019? I 27 accetterebbero il No Deal? Politicamente, poi, che fare dei parlamentari UK seduti in Parlamento? Ignorarne l’opinione o limitarne il potere di voto – senza che ci siano i motivi sanciti dall’art. 6 del Trattato di Lisbona –  rischia di portare la stessa UE sotto accusa dalla Corte di Giustizia Europea, ovvero il paradosso dei paradossi.

Sono dubbi che potrebbero, alla fine dei giochi, rivelarsi infondati, ma il rischio per la UE, rimane. Per questo la proroga dell’art. 50 è stata un errore.

E chi lo scrive è una persona convinta che la Brexit non si farà mai.

IL GRANDE ERRORE DELLA UE SULLA PROROGA DELLA BREXITultima modifica: 2019-04-22T17:23:03+02:00da bezzifer
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