Pd, il partito «doppio» che non riesce a discutere.Oppure si discute per distruggersi.ORA:Il punto è se cercare di recuperare gli elettori di sinistra o lasciarsi alle spalle la vecchia storia.
I politologi hanno sollevato sulle sorti del Pd questioni importanti, che meritano di essere approfondite e discusse. E ha messo a fuoco un punto politico che i protagonisti, impegnati in un tragicomico balletto di proposte di autoscioglimento avanzate e ritirate, nonché di cene convocate e sconvocate, non hanno il coraggio di enunciare. C’è, nonostante tutto, un futuro per il Pd? Per tentare una risposta, occorre anzitutto prendere atto che l’ipotesi stessa su cui il Pd nacque, dieci e passa anni fa, è andata in fumo da un pezzo. Forse questo partito è nato troppo tardi, affrettando un fallimento (quello del governo dell’Unione e della maggioranza «da Mastella a Bertinotti», capeggiati da Romano Prodi) e non offrendo una speranza di vittoria, nonostante il tentativo di Walter Veltroni di fondarlo su una visione del mondo. Forse non è mai nato davvero come casa comune del centrosinistra, ma solo come frutto di una fusione a freddo tra i post comunisti dei Ds e i post democristiani (non solo di sinistra) della Margherita, destinata a produrre, parola di Massimo D’Alema, un «amalgama mal riuscito». Sicuramente, e su questo Politologo ha del tutto ragione, è nato per così dire a tempo scaduto, tardo blairista e tardo clintoniano nell’immediata vigilia di una crisi finanziaria, economica e sociale destinata a togliere spazio, identità e voti a riformismi e a riformisti, o se si preferisce a neoliberalismi e a neoliberali, che ragionavano in termini di società affluente. In ogni caso, ha smesso di smuovere passioni, entusiasmi e consensi un minuto dopo le elezioni del 2008, perse, sì, ma con un 37 e mezzo per cento, più di 14 milioni di voti, che oggi sembra appartenere, e in effetti appartiene, a un altro tempo e a un altro mondo.
I tentativi di rianimarlo e di restituirgli un senso e una prospettiva, la «ditta»di Pierluigi Bersani come il partito personale di Matteo Renzi, sono falliti, il secondo più fragorosamente del primo. Così che il Pd si ritrova davanti, ma stavolta ridotto a un passo dalla marginalità politica, a qualcosa di non troppo dissimile dai contrasti che a inizio secolo ne rallentarono la nascita, e poi ne resero claudicante l’incedere. Caso più unico che raro nella storia dei partiti politici, non si è mai impegnato, dopo una sconfitta storica, in qualcosa di simile a un’analisi del voto, per mettere a fuoco dove, come e perché aveva perso. Al di là delle impuntature di Renzi e dei litigi nel (si fa per dire) gruppo dirigente, anche qui una ragione deve esserci. Perché è proprio sull’analisi del voto del 4 marzo, prima ancora che sul che fare in vista delle elezioni europee, che le posizioni si divaricano, o meglio, si divaricherebbero, se potessero esprimersi compiutamente.