Archivio mensile:marzo 2017

Si moltiplicano le affettuosità dei Cinque Stelle nei confronti di Vladimir Putin e della Russia.

La settimana scorsa  leggendo il programma per una nuova Europa presentato da Luigi Di Maio, candidato premier in pectore per il Movimento fondato da Beppe Grillo, aveva titolato l’articolo “Come putineggia il Movimento 5 Stelle”. Non era soltanto un’ironia. A certificare la sempre più forte comunanza di idee fra grillini e putiniani oggi è stato in un colloquio con il quotidiano La Stampa il deputato Manlio Di Stefano (nella foto con Di Maio), destinato secondo il quotidiano torinese a fare il ministro degli Esteri in un eventuale governo pentastellato. “Gli arresti a Mosca? Non tocca a me valutare la democrazia in un altro Paese”, ha risposto Di Stefano. Il quale, ricorda La Stampa, “nel giugno scorso sera l’unico politico italiano presente al congresso di Russia Unita, il partito di Putin”.

IL MANIFESTO PER L’EUROPA

Nel paper per l’Europa del futuro, il movimento fondato da Beppe Grillo ha messo nero su bianco l’obiettivo di stabilizzare i rapporti con Vladimir Putin: “Rimozione immediata delle sanzioni alla Russia, che provocano perdite ingenti all’economia degli Stati membri e in particolare alle piccole e medie imprese“. Non l’unico riferimento esplicito al Cremlino. Tra le misure che i pentastellati chiedono di attuare compare, infatti, anche “l’abolizione dei finanziamenti destinati alla propaganda Ue“, di cui – secondo i cinquestelle – fanno parte le attività volte a sostenere “la moneta unica” o quelle dirette a screditare “la Russia”. Nonostante si moltiplichino da Mosca attacchi diretti o indiretti contro Bruxelles.

IL PROGRAMMA DI POLITICA ESTERA

Le affettuosità verso la Russia sono anche rintracciabili in una sorta di bozza del programma di politica estera del movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio postato giorni fa da Di Stefano. Nel post, in cui ci sono dieci punti fondamentali del programma in fieri della politica estera a 5 stelle, si parla di “un ritiro immediato delle sanzioni contro la Russia”. E nello stesso documento, che ora viene presentato in diversi incontri nelle maggiori città italiane, è scritto che tra le priorità del movimento pentastellato c’è anche “il superamento della Nato”.

LE TESI ANTI OCCIDENTALI

Non è finita qui. In uno degli approfondimenti sui punti di politica estera che si possono leggere sul blog delle stelle, ci sono frasi come la seguente: “Ovunque l’Occidente abbia saccheggiato per così tanti anni, non ha creato un mondo felice, né ha creato cittadini felici all’interno delle loro nazioni. Guardate l’Italia, gli Stati Uniti, il Regno Unito, guardate le facce degli elettori dei Paesi considerati felici, democratici, liberi”. Certo, vuoi mettere la faccia di Navalny?

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Il ritorno al sistema proporzionale è davvero la fine di un mondo?

Si moltiplicano le preoccupazioni per la prospettiva del ritorno al sistema elettorale proporzionale della tanto odiata prima Repubblica perché gli elettori – si dice – perderebbero la possibilità di andare alle urne col diritto di scegliere non solo il partito ma anche la coalizione o la formula di governo. Non è però per niente vero che questo diritto fosse stato loro negato prima dell’avvento del sistema maggioritario, introdotto nel 1993 e sperimentato già l’anno dopo con la nascita, o l’illusione della nascita della cosiddetta seconda Repubblica.

Dal 1947 in poi, finita la fase emergenziale e post-bellica dei governi di unità nazionale, quando si ruppe il rapporto fra la Dc e il Pci dopo il famoso viaggio del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi negli Stati Uniti d’America, gli elettori italiani sono sempre, o quasi sempre andati alle urne sapendo con chi avrebbero poi cercato di accordarsi, per governare, i partiti ai quali avevano deciso di dare il loto voto.

Nel 1948, pur col sistema proporzionale, gli italiani andarono a votare scegliendo tra il “fonte popolare” di sinistra, composto da comunisti e socialisti, e la Dc che aveva già prenotato la prosecuzione della collaborazione con i socialdemocratici, i repubblicani e i liberali. Dalle urne uscì chiaramente una maggioranza di centro.
Nelle elezioni successive, del 1953, il centrismo degasperiano tentò addirittura di conquistare un premio di maggioranza, scambiato per “truffa” dalla sinistra, che dopo una quarantina d’anni vi fece però ricorso apprezzandone lo spirito democratico.

Si andò avanti con il centrismo per parecchio, sino a quando i socialisti e i democristiani non cominciarono, diciamo così, ad annusarsi: i primi rompendo con i comunisti e gli altri soffrendo la collaborazione con i liberali. Prima di passare tuttavia dal centrismo al centrosinistra la Dc tenne nel 1962, con Aldo Moro segretario, un congresso a Napoli assai impegnativo per segnare la svolta. Pertanto alle elezioni del 1963 tanto gli elettori democristiani quanto gli elettori socialisti sapevano benissimo che i loro rispettivi i partiti avrebbero poi governato insieme.

Interrotto alla fine del 1975 il centrosinistra con l’annuncio del segretario del Psi Francesco De Martino di non volere più fare accordi con la Dc senza l’appoggio o il concorso del Pci, gli elettori nel 1976 votarono praticamente per la prima volta senza una prospettiva politica precisa. E il risultato fu neutro. Non uscirono vincitori. O ne uscirono due, come disse Moro parlando della sua Dc e del Pci berlingueriano. Non due vincitori diversi fra Camera e Senato, come si teme ora, ma due vincitori diversi su tutto il campo, che non potendo prevalere l’uno sull’altro in Parlamento per mancanza di alleati e di numeri, furono costretti alla cosiddetta solidarietà nazionale, con due governi monocolori del democristiano Giulio Andreotti appoggiati esternamente, e in modo determinante, dai comunisti.

Finita questa maggioranza per iniziativa del Pci, che preferì tornare all’opposizione nelle prime settimane del 1979, e cambiata la linea del Psi con il rafforzamento dell’autonomista Bettino Craxi alla segreteria, dopo le elezioni politiche anticipate di quell’anno si passò per varie fasi al cosiddetto pentapartito, che era poi la somma del centrismo col centrosinistra, comprensivo anche dei liberali. E così, sempre nella preventiva consapevolezza degli elettori, si proseguì sino alle elezioni ordinarie del 1992: le ultime svoltesi col sistema proporzionale, prima del referendum elettorale del 1993 che segnò il passaggio al metodo prevalentemente maggioritario.

Il passaggio dal sistema proporzionale al maggioritario avvenne nella beata illusione che gli elettori avessero conquistato finalmente il diritto sino ad allora negato – ma abbiamo già visto che non era vero – di scegliere non solo il partito ma anche la coalizione o formula di governo, mettendola al sicuro da tradimenti e altre sorprese. Beata illusione, appunto.

Nel 1994 la combinazione di centrodestra improvvisata da Silvio Berlusconi con la curiosa alleanza al Nord con la Lega di Umberto Bossi e al Centro-Sud con l’ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, per quanto tradottasi in un governo che si riteneva destinato a cementare col potere partiti territorialmente scontratisi fra di loro, durò poco più di sei mesi. A fine anno era già sfasciata. E fu sostituita con sollievo in quattro e quattr’otto dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro con un governo tecnico del ministro del Tesoro uscente Lamberto Dini.

Le elezioni anticipate del 1996 furono vinte da una coalizione di centrosinistra capeggiata da Romano Prodi ma caduta dopo due anni e mezzo per mano della Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti. Che Massimo D’Alema sostituì nella maggioranza, pure lui in quattro e quattr’otto, alle spalle degli elettori, con un partitino di centro improvvisatogli apposta dall’immaginifico Francesco Cossiga. Ma dopo meno di due anni anche quel governo cadde, sostituito nuovamente in quattro e quattr’otto con Giuliano Amato solo per portare il paese l’anno dopo alle elezioni miracolosamente ordinarie.

Nel 2001 tornò a vincere Berlusconi con una rinnovata coalizione di centrodestra, grazie al recupero dell’alleanza con Bossi. Ma, per quanto durata un’intera legislatura fra liti e sgambetti dei centristi, riusciti persino a dividersi, come l’atomo, fra Pier Ferdinando Casini e Marco Follini, la maggioranza non riuscì neppure ad approvare unita l’ambiziosa riforma federalista della Costituzione. Che non a caso fu bocciata dagli elettori dopo un turno elettorale che aveva riportato al governo Prodi con una coalizione tanto eterogenea da cadere in meno di due anni, trascinandosi appresso la legislatura.

Tornò quindi il Rieccolo Berlusconi con un centrodestra che il Cavaliere riteneva di avere cementato ben bene unificando in un solo partito – il PdL – la sua Forza Italia e la destra di un Fini promosso persino alla Presidenza della Camera. Ma costui, facendo incrociare le sue ambizioni personali, i guai giudiziari e di letto dell’alleato e una crisi economica che ancora ci trasciniamo appresso, sfasciò tutto, anche se stesso.

Abbiamo così dovuto sorbirci un anno e mezzo di duro governo tecnico di Mario Monti e persino la fine del tanto vantato “bipolarismo” prodotto – si era detto – dal sistema maggioritario. Sono subentrate le cosiddette larghe intese, dalle quali sarà ben difficile liberarsi, anche se non potranno certo essere gli elettori a stabilirne i confini. Berlusconi vi si è appena prenotato incontrando a Malta i suoi amici del partito popolare europeo.

Ora si pretende che, nel caos politico e istituzionale creatosi con la bocciatura quasi a furor di popolo di una pasticciata ma pur sempre riforma costituzionale e con ben due leggi elettorali affidate alla sartoria della Corte Costituzionale, per non parlare dei vaffa grillini, scambiassimo il ritorno al sistema proporzionale per la fine del mondo. Via, non esageriamo.

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Non si è valutato abbastanza che in questi anni la base del Pd è cambiata molto

Giunti in vista del traguardo finale del congresso nei circoli Pd si possono avanzare le prime riflessioni su un risultato che, punto più punto meno, ormai sembra abbastanza consolidato. E che vede la vittoria di Matteo Renzi con una percentuale che – secondo i dati della Commissione nazionale – è al 69%, davanti a Andrea Orlando col 27% (ma gli “orlandiani” contestano e parlano di oltre il 30%) e Michele Emiliano con il 4%.

I numeri potranno cambiare (è probabile che Emiliano superi quel 5% indispensabile per correre alle primarie) ma – dicevamo – le grandezze sono più o meno queste. Da tenere presente che l’affluenza finora è del 60%, più alta dell’ultimo Congresso del 2013 (Renzi-Cuperlo-Civati-Pittella) di 7 punti.

Se l’affluenza restasse così ci sarebbe un primo elemento di riflessione. E cioè che pur con mille problemi il Pd resta l’unico partito organizzato sul territorio nazionale e che il livello di militanti attivi, cioè quelli che vanno a votare al Congresso di circolo, resta abbastanza alto. Il che però contrasta con un evidente declino della presenza quotidiana sul territorio soprattutto in alcune zone del Paese: vuol dire che a fronte di una disponibilità relativamente di massa si continua a scontare pesantemente una inadeguatezza degli strumenti di partecipazione.

Sul piano della competition fra i tre candidati, non era scontato che nei circoli Matteo Renzi viaggiasse su percentuali così alte. Fra i sostenitori dell’ex segretario c’è chi dice che a certe condizioni (una partecipazione fortissima al Sud, per esempio) potrebbe raggiungere il 75%. Verosimilmente si fermerà prima. Ma è da ricordare che nel 2013 nei circoli Renzi non raggiunse il 50%(46,7%, per l’esattezza). C’è un balzo in avanti di svariati punti.

La spiegazione è che che in questi anni il tesseramento al Pd è molto cambiato. Molte persone hanno lasciato il partito (una scheggia, da ultimo, è andata con l’Mdp – una scelta, secondo noi, di involontario aiuto a Renzi), e molte altre vi sono entrate: si tratta di una quota più importante di quello che generalmente si ritiene e che potremmo definire di “nativi renziani”.

Il Pd – tranne alcuni luoghi – davvero non è più l’ultimo vagone della storia Ds. Ma un partito nuovo. Che di fronte alle difficoltà della situazione – mondiale e italiana – investe ancora nell’ex segretario, in qualche modo “si aggrappa” a lui come la chance più efficace per sconfiggere l’antipolitica in salsa grillina che monta nel Paese.

Ha spiegato alla Stampa il portavoce della mozione Renzi, Matteo Richetti: “La nostra comunità sta sostenendo il suo segretario. Anzi, la sconfitta del 4 dicembre ha prodotto tra i militanti una gran voglia di reagire”. Ed è probabile che l’atteggiamento post-4 dicembre di Renzi sia stato azzeccato: le doppie dimissioni, il (relativo) farsi da parte, la molto minore esposizione mediatica, alcuni segnali di capacità inclusiva.

Per lui, adesso, la grande scommessa sono le primarie. Non sarà difficile vincerle. ma con con quale affluenza popolare ai gazebo? Questo è già il tema al quale si pensa. Renzi sarà più “visibile”, ovviamente. Ma senza strafare, né in tv né nelle piazze. Il vincitore annunciato non ha interesse a innervosire il clima. Specie sapendo di avere alle spalle una affermazione persino inaspettata nel partito, che ormai è diventato il “suo” partito.

Andrea Orlando veleggia intorno al 30%. E’ senz’altro riuscito a parlare a tutto un mondo ex ds e ulivista (l’appoggio dei prodiani e Enrico Letta è significativo) anche se proprio questo in un certo senso si sta rivelando un po’ un limite, per certi versi lo stesso limite che ebbe Gianni Cuperlo nel 2013 (che però prese il 38,4%). L’altro problema per lui è coniugare la critica sempre più vivace nei confronti di Renzi (oggi ha detto che con lui non vinceranno le elezioni) con il fatto di essere stato nella sua maggioranza nel partito e ministro nel governo.

L’idea neo-socialdemocratica di cui Orlando si è fatto portatore (iniziò la campagna parlando di una Bad Godesberg per il Pd, evocando la conferenza nella quale l’Spd abbandonò il marxismo) non è riescita a costituire un’alternativa secca al renzismo ma ne rappresenta solo una variante: ma qui siamo ai limiti della politologia buona per i gruppi dirigenti.. E forse non si è capito bene nemmeno cosa debba esere, il partito che Orlando ha in mente. Tuttavia il Guardasigilli mette in cantiere una performance di consensi che un domani gli potrà servire per contare nella direzione del partito e nella composizione delle liste elettorali.

Interessante sarà il risultato finale dei circoli di Roma, dove Orlando gode di appoggi importanti, da Zingaretti a Bettini, e dove le distanze da Renzi sono affiorate con evidenza. Sembra profilarsi un testa a testa. Vincere a Roma per Orlando sarebbe certo un ottimo risultato, sembrava facile ma non lo è.

L’altro aspetto sorprendente è il flop – almeno per il momento – di Michele Emiliano. E’ probabile che il risultato finale lo quoti più su del 4% che risulta finora. Ma questo non cambierebbe di molto una valutazione su un dato che alla vigilia nessuno si aspettava. Perché la candidatura di Emiliano, cioè di un personaggio così energico, mediatico, passionale, è stata sostanzialmente rigettata dagli iscritti del Pd?

Una prima ipotesi è che il governatore della Puglia abbia impostato male la sua campagna. Volendo prendere a cornate Matteo Renzi ha dato l’impressione di voler prendere a cornate il Pd in quanto tale. Dipingendo il partito come una roba da rivoltare come un calzino, non solo politicamente ma anche, se si può dir così, moralmente. Tutto il tono della mozione – specie la parte finale – non è semplicemente critico con quello che il Pd ha fatto in questi anni. Un gruppo dirigente lo si può combattere anche molto duramente ma non puoi chiamarlo “quella gente là”. Difficile convincere che sei il leader giusto di una storia praticamente irrecuperabile.

L’impressione è che di fronte a questa specie di grillismo in salsa Pd ci sia stata una crisi di rigetto degli iscritti. Lo ha scritto bene Andrea Romano. L’eccesso di caratterizzazione è risultato alla fine come un boomerang che gli è tornato indietro pesantemente.

Non ha certo pagato – seconda traccia di lavoro – la minaccia di uscire dal Pd fino al giorno prima dell’annuncio della candidatura. Un giorno fai la foto con Speranza e Rossi, il giorno dopo vai alla direzione del Pd: molti non hanno capito. E’ parsa una sgrammaticatura politica, una mancanza di chiarezza.

Tra l’altro, il ripensamento ha fatto infuriare quelli che poi se ne sono effettivamente andati – fondando Art.1-Mdp – e probabilmente uno in particolare, Massimo D’Alema. A guardare le basse performance del governatore nella sua Puglia viene fatto di pensare che l’ex premier non gli abbia certo dato una mano, anzi. E’ noto infatti che gli scissionisti tifano Orlando (e lo sosterranno alle primarie): è il Guardasigilli l’anti-Renzi, non lui.

Relativamente forte al Sud, Emiliano non è minimamente in partita al Nord. Quando a Milano non raggiungi il 2% sei automaticamente unfit anche se nel Mezzogiorno prendi – e non lo prende – il 70%. Ora, è assolutamente vero che il governatore pugliese – come egli stesso ha sottolineato – non ha una “rete” politico-organizzativa del Nord. Ma persino Ignazio Marino, che all’epoca era solo un senatore, al Congresso del 2009 contro Bersani e Franceschini, andò un po’ meglio, finendo al 7%. E non aveva certo l’esposizione mediatica di Emiliano.

Come detto, l’attesa si sposterà sulle primarie del 30 aprile. Quante persone andranno ai gazebo? Impossibile fare previsioni. Quello che è certo è che i nemici di Renzi, dentro e fuori il Pd, auspicano un’affluenza di un milione di persone, la metà dell’ultima volta, per dire che quella dell’ex premier è una vittoria dimezzata. Ma è chiaro che il clima è destinato a crescere e ancora una volta è possibile che il miracolo delle file ai seggi si ripeta.

 

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Perché il protezionismo è superato dalla storia

L’amministrazione di Washington sta valutando la possibilità di imporre dazi pari al 100% del valore dei prodotti su una serie di marche europee, dagli scooter Vespa all’acqua minerale San Pellegrino e Perrier, fino al formaggio Roquefort. Perché si arriva a tanto, a chi conviene davvero? E soprattutto, quali sono gli effetti per il Vecchio continente?

Ne abbiamo parlato con Roberto Sommella, Direttore delle Relazioni Esterne dell’Antitrust e fondatore de La Nuova Europa, secondo il quale l’idea dei dazi nei confronti di prodotti europei rappresenta sopratutto un attacco indirizzato alla Germania di Angela Merkel, rea di raffigurare un ostacolo per Trump nei rapporti con la Russia.

Cerchiamo innanzitutto di chiarire un concetto: Trump, ammesso che faccia sul serio, può imporre davvero i tanto paventati dazi senza andare incontro ad alcuna conseguenza?

Lo spazio ideale per discutere queste cose, tra paesi civili, è il Wto, ovvero l’organizzazione mondiale del commercio. Esistono poi i trattati nei quali si possono regolamentare i rapporti commerciali tra due confederazioni, in questo caso tra quella americana e l’Unione europea. Ma l’anomalia sta proprio in questo passaggio: Trump ha voluto tranciare i due trattati (quello con il Pacifico e quello con l’Unione) dove davvero avrebbe potuto trovare un modus vivendi negli scambi commerciali e adesso vuole imporre unilateralmente dei dazi. Sinceramente mi sembra che Washington stia andando un po’ a tentoni. E poi in un mondo globalizzato come quello di oggi non si possono imporre dazi unilateralmente, altrimenti si va in corso a ritorsioni.

Cosa si nasconde dietro questa avversione di Washington nei confronti dell’Ue?

Dietro le recenti politiche americane anti-Europa non può che esserci il braccio di ferro con Angela Merkel. Gli americani hanno la necessità di diventare i referenti esclusivi della Russia di Putin che invece in Europa, fino ad oggi, ha avuto rapporti sempre con la Germania. L’attacco ai prodotti europei è quindi un attacco alla Germania, l’unico soggetto forte dell’Unione che oggi fa da cuscinetto tra la Nato e la Russia. L’america vuole dialogare bilateralmente con la Russia senza interlocutori di mezzo e la Germania viene considerata un ostacolo per la sua forza commerciale e politica.

Come si porrà l’Organizzazione internazionale del commercio di fronte una scelta del genere?

La Wto potrebbe anche sconfessare la mossa di Trump. Dazi così mirati verso un’unione pacifica che da 60 anni garantisce la pace potrebbe anche essere negata dall’organizzazione mondiale del commercio. Anche perché l’Unione europea non è la Corea del Nord: una mossa del genere risulterebbe del tutto ingiustificata. È chiaro che se poi Washington mettesse i dazi sul made in Italy e sul lusso le cose cambierebbero, ma Trump sa bene che il lusso fa girare molti soldi, anche nei suoi Stati Uniti.

Come deve reagire invece l’Europa?

Deve pensare soprattutto a se stessa. L’unione europea ha un mercato che è quasi il doppio in termini di consumatori rispetto a quello degli Stati Uniti (quasi 500 milioni), ha il 25% del Pil mondiale e il 50% delle spese di Welfare sono prodotte nel Vecchio Continente. Le grane di questi tempi, Brexit, la Francia che svolta a destra, piuttosto che le politiche di Trump devono essere uno stimolo per l’Unione per farle riprendere coscienza della sua forza.

Gli storici sostengono come, dai tempi della repubblica marinara di Venezia, un atteggiamento isolazionistico non faccia altro che danneggiare la crescita del Paese che lo sceglie.

Vero, ricordiamo cosa è successo anche in Germania e in l’Italia ai tempi della seconda guerra mondiale. Oggi non è più l’epoca del protezionismo semplicemente perché basta un normale smartphone per superarlo. Puoi continuare a comprare una Vespa dalla California, il modo di farla arrivare lo troverà poi Amazon. D’altra parte, oggi, questi colossi contano più degli Stati stessi. Basti pensare che Amazon ha comprato delle navi in Cina per essere completamente autonomo: gli oggetti acquistati te li porta direttamente con i propri mezzi. E nel frattempo l’intelligenza artificiale si sta sviluppando sempre di più. Al punto che con un semplice apparecchio collegato alla lavatrice di casa ti viene spedito il detersivo nel momento in cui si esaurisce. Di fronte a tutto questo che senso hanno i dazi? Non funzionavano nella Venezia di Marco polo, non funzioneranno oggi: vengono imposti in un territorio che non esiste più. Il territorio oggi è la rete: ecco perché o togli internet oppure i dazi non hanno alcun senso.

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Ok della Camera al ddl Magistrati. Regole di ingaggio per i giudici in politica

L’attrazione fatale della Puglia per i magistrati sta per manifestarsi di nuovo. Dopo la stella di Emiliano, divenuto sindaco della stessa città dove aveva fatto il sostituto procuratore , è adesso la volta di Taranto.

Accade nella città dell’Ilva che proprio Franco Sebastio, il magistrato che aveva indagato e mandato a processo il sindaco Ippazio Stefàno e mezzo gotha della politica regionale, da Nichi Vendola a Nicola Fratoianni, voglia candidarsi alla poltrona di primo cittadino. Comitato elettorale a Tamburi, il quartiere operaio all’ombra della fabbrica dei veleni, con il sostegno degli ambientalisti. Da una battaglia all’altra passando da una parte all’altra della barricata, smettendo la toga e senza soluzione di continuità indossando la fascia tricolore.

Il punto è che fin qui non c’è una legge che metta i tornelli all’ingresso e in uscita dalle porte girevoli tra magistratura e politica, in sfregio alla separazione dei poteri dello Stato e in barba alla ricerca di un equilibrio tra due dei principi fondamentali della Costituzione. Se da una parte ci sono l’indipendenza, la terzietà e l’autonomia della magistratura, dall’altro c’è il diritto all’elettorato passivo di tutti i cittadini. Anche di quelli togati che sin qui, se hanno voluto fare politica, l’hanno fatta senza le regole del gioco, incorrendo, come nel caso di Emiliano, in un procedimento disciplinare del Csm che il 3 aprile deciderà se sanzionare il governatore della Puglia per essersi iscritto al Pd pur conservando la toga. Con 13 anni di ritardo.

Con il ddl Magistrati approvato oggi alla Camera e in avvio per la terza e definitiva lettura al Senato, casi come quello di Emiliano, del Pm Sebastio, ma anche della Finocchiaro e di altri che siedono in Parlamento – non molti in realtà in questa legislatura- oppure che ricoprono ruoli di governo o aspirano a questi da magistrati in aspettativa, potrebbero essere normati da regole chiare e precise. Sempre che la legge passi anche al Senato, il che scontato non è, visto il tema, spinoso e delicato perché va a toccare equilibri da cristalleria. Poteri che, raccontano le cronache, si scontrano spesso lasciando nei contrasti il segno tangibile che un confine vada messo per forza.

Paletti in ingresso e in uscita per tutti i magistrati che fanno politica: ordinari, amministrativi, contabili e militari. Siano essi in attività o fuori ruolo. Paletti che valgono per tutte le elezioni -europee, politiche, regionali, amministrative – e per tutti gli incarichi di governo nazionale, regionale e negli enti locali.

Che cosa dice la legge. Dopo aver asserito il diritto inviolabile della candidatura passiva prevista dall’articolo 51 della Costituzione e quello a conservare il proprio posto di lavoro, sancito dallo stesso articolo, il ddl Magistrati detta le regole che consentono a un giudice di candidarsi e prevede le condizioni di rientro, una volta terminata l’esperienza politica.
Ingresso. Possono candidarsi al Parlamento italiano e a quello europeo così come negli enti locali quei magistrati il cui collegio elettorale sia diverso dal territorio dove ha svolto le sue funzioni nei 5 anni precedenti e deve essere già in aspettativa da almeno sei mesi. Se un magistrato assume un incarico di governo deve mettersi in aspettativa.
Uscita. Un giudice eletto o con incarichi governativi può rientrare in magistratura a fine mandato a tre condizioni: la prima è che ritorni in un distretto di corte d’appello diverso dalla circoscrizione di elezione, la seconda è che per 3 anni non ricopra incarichi direttivi o semidirettivi, la terza è che per 3 anni svolga esclusivamente funzioni giudicanti collegiali. Resta poi l’ipotesi di rientro presso l’Avvocatura dello Stato.

In sostanza, se passasse questa legge Michele Emiliano non potrebbe istruire inchieste in Puglia e certamente il Pm dell’Ilva correre per la poltrona di sindaco di Taranto dopo aver indagato il primo cittadino.

E magari certe relazioni pericolose tra politica e magistratura sarebbero più difficili.

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C’è un Paese in Europa dove l’onda populista si sta ritraendo. Questo Paese è la Germania e non è un caso

Le lacrime di Frauke Petry sul palco di Weinboehla potrebbero diventare il simbolo dell’inizio della fine del populismo tedesco. Il partito anti-europeista e xenofobo Alternative für Deutschland, fino a pochi mesi fa la causa principale dei “sonni disturbati” di Angela Merkel, non fa più paura. E se nel 2015 e 2016, in piena crisi migranti, macinava percentuali impressionanti, dal 25% di alcuni Länder dell’Est a oltre il 10% in quasi tutti gli stati dell’Ovest, con una proiezione nazionale intorno al 15%, oggi quei numeri sembrano inesorabilmente affievolirsi.

In vista delle elezioni federali del 24 settembre, le percentuali di AfD sono continuamente riviste al ribasso, arrivando a toccare quota 7%. La normalizzazione dell’emergenza profughi, le buone performance economico-occupazionali che continuano a garantire ai tedeschi un’alta qualità della vita, l’effetto Schulz che da quando è alla guida della Spd e candidato alla cancelleria continua a erodere consenso ai partiti minori: tutti fattori che stanno contribuendo allo sgonfiamento della bolla populista. E non è un caso che in Germania i due grandi storici partiti di massa, entrambi convintamente europeisti, siano accreditati di una percentuali di voti che, se sommata, tocca il 65-70%.

E le conseguenze cominciano a farsi sentire anche all’interno dello stesso fronte populista. Altro che onda trumpista o lepenista. Il partito si sta sgretolando con la stessa inarrestabile velocità con la quale era esploso solo due-tre anni fa. Un fenomeno ricorrente nella politica tedesca dell’ultimo decennio, basti pensare alla parabola dei Pirati che sembravano sul punto di diventare il terzo partito in Germania e invece si sciolsero come neve al sole.

Tanto che, come riporta il Tagesspiegel , Frauke Petry, la 41enne leader che solo pochi mesi fa a Coblenza faceva gli onori di casa ai vari Salvini, Wilders e Le Pen, sta seriamente pensando di ritirarsi a vita privata. Mamma di quattro figli, in attesa del quinto che nascerà quest’anno, salita ai vertici del partito dopo la ‘cacciata’ del cofondatore di Afd, l’economista Bernd Lucke, nel 2015, Petry da allora è stata al centro di molte battaglie e divisioni, da ultimo il dibattito sull’espulsione di un esponente di spicco del movimento che aveva definito il Monumento alla memoria dell’Olocausto a Berlino “un monumento alla vergogna”.

Una decisione che ha fatto storcere il naso a molti esponenti dell’ala oltranzista e nazionalista di destra interna al partito e che le è costata molte critiche durante l’ultimo congresso in cui è stata nominata capolista con una percentuale piuttosto bassa (72%) in tandem con il vice Alexander Gauland. Non è piaciuta ai rivali interni la sua scelta di prendere le distanze dagli antisemiti e dai colleghi in odore di simpatie naziste. Le sparate di cui è stata oggetto l’hanno addirittura fatta scoppiare in lacrime sul palco della Sassonia.

Un’immagine che ha avuto immediate conseguenze, in primi su se stessa: “E’ ragionevole riflettere di tanto in tanto sulla propria vita e a volte aggiustare nuovamente il tiro. Sono sempre rimasta flessibile nella mia testa, è il mio percorso e resterà così. Ecco dove mi trovo ora, dopo 4 anni all’Afd che mi hanno richiesto molti sforzi e mi hanno fatto dire addio ad una vita normale”. Parole che non escludono un addio in tempi brevi e che potrebbero preludere alla fine della (breve) parabola politica del partito.

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Scanzi e Bersani possono attrarre solo grasse risate.

Scanzi a Bersani: “Con M5s in ascesa e con D’Alema accanto è sicuro di essere attrattivo per gli elettori?”

Per Bersani i problemi dell`Italia sono 3: lavoro;sanita` e walfare; progressivita` e fedelta` fiscale.Risvegliatelo questo politicante di mestiere,queste cose le avete gia` toccate.
Abolizione articolo 18,introduzione vouchers,mantenimento dei 22 tipi di contratto(Cocopro,ecc,),riduzione di 4 miliardi l`anno per la sanita`,esodati ,alzamento eta` pensionabile e la mitica APE: condoni fiscali mascherati per i capitali dall`estero e salvataggio delle banche ridotte al lastrico dai prestiti mai restituiti degli amici di merende.
Tutto fatto Bersani,grazie mo vattene in pensione,quella dorata che ti sei votato.

I partiti si sono degradati il M5S secondo i sondaggi è al 1° posto e le critiche di Bersani riguardo Grillo e democrazia sono giustificate; ma per un popolo che per 20 anni ha votato Berlusconi le critiche al m5S sono bazzecole! Purtroppo non c’è speranza e dovremmo subirci governi sperimentali dai 5stelle. Prevedo che anche Bersani&Company ne siano consapevoli, tutto sommato è quello che vogliono al di là delle dichiarazioni di ostilità da ambo le parti. Appendino è in linea con Fassino, nulla di nuovo… Di Battista leader teatrale ma genuflesso a Grillo ambiguo nelle sue dichiarazioni politiche; e queste per Scanzi sarebbero figure carismatiche? ok Scanzi siamo su le comiche o scherzi ha parte.

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Ridicolo finale per grottesca indagine dei giudici sfaccendati di trani, che invece di occuparsi della malavita locale fanno causa all’universo e non sono gli unici..

Le agenzie di rating S&P e Fitch assolte al processo di Trani per manipolazione di mercato Soddisfatti i legali: “Accuse infondate, finalmente giustizia”

E l’indagine era la prova del complotto che Berlusconi indicava come causa della caduta del suo governo. Ora è evidente più di allora, che governando a tempo perso ( per sua stessa ammissione) il paese si è trovato nel 2011 sull’orlo del fallimento.

Sbaglio o è un’inchiesta che ha visto in prima fila il PM Woodcock (lo stesso dell’indagine su Lotti e Tiziano Renzi), specialista in soufflè mal-riusciti, ossia in indagini che si sgonfiano e si concludono una dopo l’altra in un nulla di fatto? Alla scuola anormale di Volterra non ti hanno insegnato che per fare un processo almeno uno straccio di prova lo devi avere? Siamo alle solite processi partiti con grandi fanfare e poi finiti nello scarico del cesso,stile wodcok insomma. Richiedi:A proposito del processo del secolo secondo di mail (trivellopoli) si sa più nulla?OK:L’ennesima bufala di qualche magistrato che fra un po’ inizierà la carriera politica.

Ma cé sempre;Il grullo qualunquista paparazzo,sempre pronto con le sue rispostine insignificanti.I processi a prescindere vanno fatti in base a prove e non alle sensazioni pruderose di qualche magistratucolo in cerca di notorietà.Sai dirmi che fine a fatto trivellopoli e tempa rossa? Cioè quando un’inchiesta finisce con l’assoluzione è un complotto invece quando finisce con la condanna è giustizia, giusto? i Grulloidi hanno sempre questo strano gusto per ribadire la loro idiozia. Abbiamo capito, state sereni.

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Ragazzi meravigliosi! Stanno in Parlamento come nei musei o autogrill certe classi in gita scolastica. Del resto sono in missione per conto di uno che il rispetto, non dico per le istituzioni, ma per il prossimo non sa neppure cos’è, e ha quasi 70 anni.

Camera, sospesi per 15 giorni gli M5s che tentarono irruzione in ufficio di presidenza.I 19 deputati provarono a entrare il 22 marzo scorso mentre si votavano le delibere sui vitalizi dei parlamentari. Sanzioni minori anche per altri 23 pentastellati che quel giorno inscenarono altre forme di protesta. I 5 stelle protestano in piazza Montecitorio per la decisione presa.

Io penso che non ci si renda conto della gravità di quanto è accaduto, un vicepresidente della camera che assalta la presidenza….e la prossima volta?

E adesso attaccheranno con la solita manfrina, diranno che la “casta” ha ordito un attacco contro la democrazia, che loro erano troppo indignati ed hanno voluto rappresentare il disgusto della “gggente”.Complotto! Complotto dei poteri forti! Loro vogliono mantenere i loro privilegi e noi volevamo solamente impedirlo facendo come allo stadio che si sfonda tutto e vince il più forte che passa avanti e si fa rispettare (soprattutto nella fila al bar e per il bagno)!! Complimenti, continuate a sbattere la porta in faccia alla gente, perchè prima o poi la gente la sbatterà in faccia a voi, vi toglierà da quelle poltrone, vi verrà a svegliare nella notte, vi staccherà la luce in casa e vi si scongeleranno tutti i surgelati che avete in freezer!! 1+1=1+1 (proprietà transitiva 5 stelle)

Partiamo con ordine dicendo:

1) costoro non sono parlamentari ma solo i figuranti messi lì per queste occasioni, per fare “ammuina” e poi elevarsi a martiri, funzionali ad una mera propaganda atta a sviare l’attenzione sulle loro incapacità, mediocrità e vuoti politici.

2) Il Parlamento come istituzione è sacro, non è uno stadio o uno scenario da post click bait di facebook.

3) Non sono stipendiati per fare irruzione, ma per dialogare, proporre e fare opposizione in un contesto civile. Se ne sono incapaci, possono anche tornare sui blogs o nei postriboli sociali e cibernetici da dove sono venuti.
Dai grillini solo  metodi fascisti, ormai è sempre più chiaro, dall’incitamento alla violenza, alla diffamazione degli avversari, all’irruzione con la forza nell’ufficio di Presidenza. Tutte le forze democratiche, popolari, liberali, socialiste, cattoliche devono fare fronte comune contro il nuovo fascismo di Grillo. E pensare che sono così rispettosi delle regole dettate dal DUCE grillo !…ci deve’essere uno sbaglio sicuramente…forse erano squadristi del secolo scorso….

 

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La Brexit è cominciata.

I 5 nodi politici della Brexit

Un lungo processo che durerà due anni e, nonostante le speranze di chi ha manifestato a Londra, non sarà reversibile. Il dilemma è se sarà soft come spera Theresa May o hard come vorrebbe il ministro degli Esteri Boris Johnson. Molte le questioni aperte e molte se ne apriranno, quella politicamente più spinosa riguarda la Scozia che ha votato no alla Brexit: il parlamento di Edimburgo vuole un altro referendum sulla secessione, che viene negato da Londra (ancora per quanto?). Ma anche l’Ulster, dove il no alla Brexit è prevalso, sta meditando se ascoltare fino in fondo le sirene di Dublino. Dunque, non si tratta solo di aver rotto il legame con l’Unione europea, ma di rompere il Regno Unito.

Da oggi si entra in un ginepraio di interpretazioni dei Trattati. Ci sono in ballo questioni chiave come la fine del mercato unico e il ritorno a un intrico di dazi e tariffe doganali, la circolazione (e lo status) dei cittadini europei finché il processo non sarà compiuto e dopo, la giurisdizione dell’alta corte di giustizia, il conto finale da pagare al bilancio della Ue (un conto che per gli altri Paesi si trasforma in aggravio pro quota del contributo) e così via. Ci sarà tempo per entrare nel merito, punto per punto. Ma la Brexit non va ridotta a un problema contabile, alcuni nodi politici sono molto più preoccupanti.

L’immigrazione. Il sì ha espresso un chiaro rifiuto di nuove ondate migratorie. Ma attenzione, mentre per l’Europa continentale il conflitto è con il flusso fuor del comune di rifugiati dalla Siria e del Medio Oriente o con i migranti che vengono dal Nord Africa e dall’Asia, per gli inglesi la frattura è con gli altri europei. Si potrebbe dire che hanno meno paura dell’Isis che degli idraulici polacchi o degli studenti italiani i quali vanno a “rubare” il welfare britannico. La colpa ricade sulla crisi che ha innescato guerre tra poveri? Forse, ma se gli ospedali inglesi non funzionano più come una volta la colpa non è degli italiani (tanto meno di quelli che vengono assunti per fare i medici), bensì degli inglesi stessi, di come hanno realizzato e gestito un sistema sanitario del quale sono stati precursori e che molti altri Paesi (tra i quali l’Italia) hanno imitato e perfezionato. Ma, anziché assumersi le proprie responsabilità, è più facile cercare capri espiatori, meglio ancora se stranieri.

La sovranità. E’ un tema sensibile non solo oltre Manica. Tutti ormai, sia pure con accenti diversi, vogliono recuperare la propria sovranità. Quella monetaria, quella economica, quella legata ai confini, alla nazione (e c’è persino chi ritira fuori le radici etnico-razziali). Una totale illusione. Non solo perché “nessuno è un’isola” come scriveva un poeta inglese, John Donne, quattro secoli fa quando le isole britanniche cominciavano a espandersi nel mondo intero, ma perché la stessa Gran Bretagna è tributaria pressoché completa – dalla finanza all’esercito, dalla politica estera al potenziale nucleare – degli Stati Uniti. La storia non si cancella. Se così è per chi ha vinto la seconda guerra mondiale, ma ha perduto se stesso, figuriamoci per paesi sui quali pesa ancora la sconfitta.

La Germania. E veniamo all’altro capro espiatorio. La campagna per il sì, anche da parte di persone preparate come Boris Johnson, ha evocato spesso il predominio tedesco. L’Unione europea è stata dipinta come il Quarto Reich o, nelle varianti più benevole, come il Sacro romano impero germanico. Una propaganda che ha fatto breccia altrove, anche in Italia sia tra gli euroscettici sia tra gli stessi europeisti. Che ci sia uno squilibrio tra Berlino e gli altri Paesi non c’è dubbio. Che i tedeschi abbiano una parte di colpa è certo. Come minimo sono stati sordi, ciechi e muti beandosi del proprio egoismo, immemori degli aiuti ottenuti per l’unificazione e superare le proprie difficoltà, anche nei primi anni dell’unione monetaria. Ma la Germania odierna non è quella di Hitler né la Prussia di Bismarck. La sua costituzione, la sua memoria, i suoi comportamenti (si pensi ai rigidi limiti imposti all’esercito), tutto lo dimostra. Il modello è Weimar, quella di Goethe e quella di Gropius. Non solo. In un mondo in cui rinasce il nazionalismo, proprio la Germania si sta assumendo il compito di fare da argine. E questo ci porta a un altro tema sensibile.

Il protezionismo. La Gran Bretagna, spinta dagli Stati Uniti, ma anche per sua vocazione, è il Paese che più si è speso per la globalizzazione. A Londra è cominciato il big bang della borsa negli anni ‘80 e oggi resta una delle principali piazze mondiali. L’economia britannica è molto più aperta di quella americana. ll libero scambio (anche se non esattamente equo) è stato un principio base a partire dall’800 e ha contribuito a formare non solo l’economia, ma la filosofia dell’Inghilterra moderna. La Brexit, anche nella sua versione soft, è un formidabile contributo al neo-protezionismo. Gli inglesi saranno i primi a pagarlo. Ma tutti i Paesi il cui benessere dipende dagli scambi di merci (come l’Italia che tra l’altro ha molte meno risorse interne) ne soffriranno.

La politica. Si dice che il popolo è sovrano anche quando sceglie contro i propri interessi e contro i diritti dell’uomo (come avvenne in Germania nel 1933). E che gli inglesi hanno votato contro l’establishment, condannando l’arroganza dell’élite. La discussione è molto complessa e ci porta nei labirinti della dottrina politica dai quali ora è meglio restare fuori. La questione riguarda semmai proprio la classe dirigente. A un Paese che, in nome della pace e della tranquillità, aveva accettato che Hitler invadesse i propri vicini (il patto di Monaco del 1938) Winston Churchill promise “lacrime e sangue” per salvarsi dal nazismo. Il suo biografo Boris Johnson, il quale non è uno sprovveduto, ha cavalcato la tigre promettendo magnifiche sorti e progressive. Sta qui la differenza, e forse è una differenza fondamentale.

 

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