ANCHE SE DA NOI FORSE E ALLE SPALLE!Serve imparare a vivere in un regime autoritario, da Putin a Salvini

Risultati immagini per imparare a vivere in un regime autoritario, da Putin a SalviniConfessioni di una giornalista extracomunitaria e liberale: l’Italia e la Russia sono due mondi diversi, ma il denominatore comune di certi leader è lo stesso e lo si combatte con la libertà di stampa.

Io sono una extracomunitaria, una giornalista e una liberale. Tre attività sempre più difficilmente praticabili in questo mondo. In altre parole, vorrei che nessuno mi rinfacciasse i miei geni o il mio passaporto, vorrei poter esprimere quello che penso in un dibattito libero e corretto, senza che nessuno mi possa chiedere di sacrificare la mia libertà individuale in nome di dio, patria, famiglia, popolo, sangue, suolo o qualunque altra entità mistica e non facilmente definibile, o perlomeno potendo scegliere (con diritto di recesso) gli dei, le patrie e soprattutto le famiglie e le identità. Sembrava chiedere qualcosa di scontato. Ora sembra un’enormità.

Il mio mestiere e la mia storia mi hanno insegnato che non bisogna mai snobbare qualcosa come impossibile. Negli anni Novanta leggevo le pubblicazioni dei “geopolitici” russi, inebriati da Mackinder, Evola e Benoist, i reazionari che i media italiani hanno scoperto grazie alle avventure di Savoini al Metropol e dintorni. Allora immaginarsi che Alexandr Dughin, che all’epoca si poteva trovare in redazioni scalcinate di riviste ciclostilate o in scantinati fumosi di periferia, in compagnia di punk e pope spretati, sarebbe diventato consigliere del presidente russo e titolare di una cattedra all’università di Mosca, era impensabile quanto vedere un palazzinaro americano celebre per il suo cattivo gusto entrare alla Casa Bianca. La parola “sovranismo” non era ancora stata inventata, “populismo” significava qualcosa di molto diverso, e in quel momento i “geopolitici” ricordavano semmai i nazisti dell’Illinois, eppure erano il cuore di tenebra della Russia, nascosto ma pulsante. Bisognava ascoltarlo per capire il vero pericolo. Anni dopo e migliaia di chilometri più a ovest, vidi un conoscente applicare lo stesso metodo a ogni elezione: per convincersi a votare a sinistra si sparava le trasmissioni di Emilio Fede.

Trent’anni dopo, nell’agosto 2019, le stesse persone, con le stesse letture e le stesse idee, hanno chiesto i “pieni poteri” sull’Italia. Di fronte alla prospettiva di un Paese dove esercitare il mestiere di giornalista indipendente da difficile sarebbe diventato impossibile, e dove agli immigrati sarebbe stato proposto al massimo un apartheid – perché qualcuno deve pur cambiare i pannolini ai bisnonni e raccogliere i pomodori – la panoramica delle opinioni è stata deprimente, se possibile, ancora di più delle esternazioni dal Papeete. “Non faranno niente, sono tutte chiacchiere per il popolino, non ci puoi mica cascare”, era l’opinione dei moderati. I simpatizzanti della destra argomentavano che i negri e gli arabi si dovevano fermare a tutti i costi, “ma che c’entri tu che sei un’immigrata regolare, che sei praticamente un’italiana, che sei…”, e di solito (ma non sempre) un residuo di pudore li fermava dal pronunciare la parola “bianca”, già sospesa sulla lingua. Alcuni amici di centrosinistra erano più solidali, ma anche loro convinti che non sarebbe durata, in fondo Salvini e i suoi erano solo una manica di incompetenti, l’Europa avrebbe fermato gli estremismi, e comunque non c’era nulla da fare, e in fondo una Resistenza con la maiuscola, contro un nemico vero, prospettava un futuro di impotenza piena di certezze, fiaccolate, raccolte firme e sacrosanta indignazione. La paura di fronte alla prospettiva di trascorrere, nel migliore dei casi, i prossimi vent’anni a giustificarmi che ero “praticamente” un’italiana, veniva bollata con un «Non esagerare». Insomma, sono cose che non ci riguardano, a noi gente per bene, colta e benestante, non capiterà nulla di male, si risolverà, è impossibile, non siamo mica quella poveretta dalla pelle scura che viene insultata proprio in questo momento al bar all’angolo da un avventore fieramente italiano, nell’indifferenza degli altri clienti e dei proprietari (cinesi).

Posso raccontare, capitolo per capitolo, come sarebbe andata nei mesi e anni successivi. Potrei farne un manualetto, come attrezzarsi per imparare a vivere in un regime autoritario. Perché non arriva all’improvviso, avanza piano piano

Posso raccontare, capitolo per capitolo, come sarebbe andata nei mesi e anni successivi. Potrei farne un manualetto, come attrezzarsi per imparare a vivere in un regime autoritario. Perché non arriva all’improvviso, avanza piano piano. Inizia dall’ampliamento di quella zona del lecito che permette di insultare un’immigrata di colore, o di dire “frocio” a un gay, in fondo, nulla di male. Tutto resta come prima, e dopo un paio di clamorose polemiche su frasi shock di qualche ministro ci si sveglia ed è tutto come prima, e ci si convince che in fondo sono solo chiacchiere, la vita va avanti, si lavora, si va a scuola, ci si vede al ristorante con gli amici, il tran tran della vita riprende inesorabile. Poi chiude un giornale (un partito, un think tank, una Ong), e tutti a dire «se la sono voluta», «non li leggeva (votava, filava) nessuno», «erano in bancarotta, è il mercato», e poi «erano ladri» e «non vorrai mica difendere questi che erano al soldo di Soros» (Macron, Israele, i rettiliani). Poi arrivano un paio di leggi contro la libertà di stampa, l’indipendenza dei giudici, i diritti individuali, per non parlare degli omosessuali, dei tossicodipendenti e degli accattoni, e «insomma, ci vuole un po’ di ordine», «si stavano permettendo troppo», «è una misura temporanea», «non voglio che i miei figli vedano queste cose».

A chi protesta si obietta che sono degli “esagerati”, e poi «non puoi chiamarli fascisti, non si possono usare alla leggera questi termini ormai superati». Sempre più persone, civili, moderate e intelligenti, a prendere prudentemente le distanze, in fondo sono impegnate in attività molto più serie che andare a votare insieme alla plebe, che tanto «quello vuole», anche perché chi potrebbe proporre un’alternativa non è entrato in parlamento (non ha più ricevuto finanziamenti pubblici, frequenze, cattedre, spazi in tv). Poi arriva il «in fondo si sta meglio, l’economia va forte», anche perché non c’è nessuno a spiegare che non è vero, o il prezzo che si pagherà a breve. Piano piano spariscono pezzi della vita abituale, un libro in meno, un confine in più, un obbligo o un divieto nuovo, ma sono minuzie, si può vivere anche senza, è solo stupidità di alcuni esponenti del governo, non puoi dedurne una tendenza globale. L’opposizione intanto litiga in nome della libertà, fino a frantumarsi in particelle infinitesimali ma irriducibilmente determinate a non sedersi a un tavolo con altre particelle altrettanto invisibili alle quali non si può perdonare un avverbio sbagliato pronunciato vent’anni prima.

Molte particelle si rassegnano e al motto di «la vita è una sola» vanno ad aggregarsi con il regime, del quale spesso diventano i difensori più sfegatati, come tutti i neoconvertiti. I personaggi che abitavano gli scantinati entrano nel governo e quello che veniva snobbato dalla gente per bene come delirio di pochi pazzi e ignoranti diventa regola. Poi subentra il «però almeno gliel’abbiamo fatta vedere, all’estero ci rispetteranno di più, ci siamo ripresi il nostro orgoglio». Poi si scopre che non c’è nemmeno bisogno di chiudere più nulla, perché tutti hanno capito cosa dire e cosa fare. La frase «non parliamone al telefono» torna di uso comune, insieme alle barzellette da raccontare a bassa voce ad amici fidati. La vita prosegue come prima, si va a lavorare, a scuola, al ristorante con gli amici. Per mantenere il lavoro bisogna qualche volta andare a una manifestazione per il governo, oppure stare zitti, «insomma, ci siamo capiti». Per finire la scuola tocca imparare la vita dei santi e a smontare e rimontare un kalashnikov, e pazienza se poi bisogna pagare le ripetizioni private perché la scuola prepara ad arruolarsi nell’esercito, ma non a essere concorrenziali nel mondo moderno. Al ristorante il menu si è accorciato, perché tra sanzioni, moneta in svalutazione e autarchia gastronomica, il governo ha deciso che cosa si può mangiare e cosa no. Ed è troppo tardi per cambiare idea, per dire no, non è più possibile.

Quanto descritto sopra non è un brano tratto da qualche memoria degli anni Trenta, o da una distopia orwelliana. È accaduto, sta accadendo da vent’anni, a tre ore di aereo dall’Italia, in un Paese che ha restituito la libertà al mittente con un voto, non con un golpe

Quanto descritto sopra non è un brano tratto da qualche memoria degli anni Trenta, o da una distopia orwelliana. È accaduto, sta accadendo da vent’anni, a tre ore di aereo dall’Italia, in un Paese che ha restituito la libertà al mittente con un voto, non con un golpe. Ma il manualetto è valido per tante altre situazioni. I tratti comuni sono sempre gli stessi. Da un lato, una nazione in shock da modernizzazione, una modernizzazione fallita o che ha lasciato troppe vittime, che si rifugia nell’isolazionismo di un mitico passato glorioso e nella ricerca di capri espiatori immancabilmente “diversi” dai compatrioti. Dall’altro, un leader spregiudicato che infrange le regole non scritte della politica, aprendo la “pancia” di un Paese, pronunciando ad alta voce l’indicibile, incurante della verità e delle conseguenze pur di cavalcare la tigre che libera dalla gabbia. Una scuola scadente, dei media troppo asserviti o poco professionali o poco diffusi, uno Stato debole e corrotto e un passato di relativa chiusura al mondo sono ingredienti necessari ma non sufficienti da soli. L’aggiunta della polarizzazione da social – che Putin nel 1999 non aveva – rende il cocktail esplosivo.

Per evitare inutili polemiche: è ovvio che la Russia postcomunista non è l’Italia, e se è per questo Putin non ha mai avuto una retorica estremista nemmeno per un decimo di Salvini (forse è uno dei motivi per cui il Cremlino non ha mai scommesso seriamente sul leader leghista). Ma per chi studia le dinamiche dell’autoritarismo – nazionalismo, sovranismo, populismo, fascismo, postnazismo, illiberalismo, vecchia o nuova destra, tanto sappiamo di cosa stiamo parlando – il déjà vu è inevitabile. Come è inevitabile sentirsi dire «stai esagerando». Se avessi avuto un euro per ogni volta che mi sono sentita dire che esageravo ed estremizzavo, a quest’ora avrei potuto finanziare un giornale con i fiocchi, invece di vedere chiudere o ridursi a poco più del nulla testate piccole e grandi. Perché è dai media che bisogna ripartire. Da quei media – perfettamente istituzionali quando non statali – che per anni hanno titolato sulla “banda di slavi” che rapinava ville e negozi di italiani (chi sono gli “slavi” resta ancora un mistero, è più o meno come dire “celti”) o che mostravano l’immigrato solo nella versione del profugo appena sbarcato, amplificando l’idea dell’invasione. Da quei media che intervistano i freak della politica senza contraddittorio. Da quei media che ormai si sono ridotti a ritrasmettere i tweet dei politici, a ingrandire corpo e foto e ridurre i pezzi, a chiudere uffici di corrispondenza e raccontare il mondo là fuori e la complessità della politica internazionale come un fumetto di supereroi. Da quei media che cercano la catastrofe e il pulp a tutti i costi, e che non hanno né tempo, né soldi, né voglia di verificare una notizia: se c’è stato bisogno di inventare il mestiere del fact-checker, vuol dire che i giornalisti non hanno fatto bene il loro lavoro. Da quei media che molto prima dei politici si sono messi a rincorrere il populismo (peraltro con risultati molto meno appaganti), preparando il terreno per partiti, ed elettori, che non sono calati da Marte. Senza rendersi conto che nella società mediatica il potere non si basa tanto sul monopolio della violenza o della moneta, ma sulla capacità di forgiare una narrativa in grado di diffondere benessere (o malessere).

Nell’agosto del 2019 il disastro è stato evitato per un pelo, grazie alla democrazia, e grazie all’intelligenza, al coraggio e all’abilità di Matteo Renzi. Non è possibile però continuare a confidare in un solo uomo, e nei suoi miracoli. Non è più il momento dei popcorn. Il problema non si risolverà da solo, se non in troppi anni e con troppi danni. E il problema non è Salvini: scoperto il metodo con il quale fare il 34% dei voti, lo userà qualcun altro. È il metodo che non deve essere più praticabile in una democrazia. In attesa che tutti sviluppino le difese immunitarie per un morbo inedito – quando venne inventata la pubblicità tutti compravano le lozioni per far ricrescere i capelli, poi non ci sono più cascati – bisogna attrezzarsi all’epidemia, con mascherine, vaccini, quarantene e campagna di prevenzione. La caccia agli untori può apparire un rimedio tentante, ma imparare a lavarsi le mani, e insegnarlo agli altri, è più efficace.

ANCHE SE DA NOI FORSE E ALLE SPALLE!Serve imparare a vivere in un regime autoritario, da Putin a Salviniultima modifica: 2019-09-24T11:31:05+02:00da bezzifer
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