Il problema è strutturale, perché l’intero dibattito interno al Pd, per una sorta di principio di inerzia dei pregiudizi e delle posizioni precostituite, è divenuto al tempo stesso anacronistico e completamente autocontraddittorio. Imprigionato dentro riflessi condizionati acquisiti negli anni novanta, che non hanno più praticamente nessun collegamento con la realtà attuale.
Da un lato, infatti, c’è una maggioranza che si è presentata come quella della svolta a sinistra e che ha puntato tutto sull’accordo con il Movimento Cinque Stelle, finendo così – pur di compiacere i futuri e assai recalcitranti alleati – per sottoscrivere tutti i provvedimenti del precedente governo, persino quelli a firma Matteo Salvini, cioè più di destra. Dall’altro lato ci sono i riformisti, contrarissimi all’abbraccio con i populisti, ma al tempo stesso fermamente attestati sulla linea Minniti per quanto riguarda sicurezza, immigrazione e accordi con la Libia, cioè sulla linea della massima continuità possibile con il precedente governo populista, e con la componente populista del governo attuale.
Come se non bastasse, i primi, cioè quelli che hanno puntato tutto su una nuova coalizione di centrosinistra che comprenda i cinquestelle, hanno appena promosso una legge elettorale proporzionale, che non prevede coalizioni pre-elettorali; mentre i secondi, quelli cioè che la coalizione con i cinquestelle non la vorrebbero fare, protestano che ci vogliono il maggioritario e il bipolarismo (di coalizione), che renderebbero l’accordo praticamente indispensabile. E così arriviamo al singolarissimo paradosso di un leader del Pd che da un lato promuove una legge elettorale in cui ciascuno corre (e prende i voti) per sé, dall’altro fa praticamente campagna elettorale per un partito concorrente, definendo Giuseppe Conte un «punto di riferimento fortissimo di tutte le forze progressiste» e lasciando capire che fosse per lui lo ricandiderebbe pure a Palazzo Chigi.
Se vi è venuto il mal di testa e già non ne potete più, non mi sento di biasimarvi. Mi limito ad aggiungere una brevissima nota esplicativa: l’equivoco di fondo sta nell’idea che i cinquestelle siano di sinistra, anzi, che siano addirittura a sinistra del Pd, assurdità che fino a ieri si fondava sulla semplice rimozione di quanto i cinquestelle avevano fatto al governo con la Lega di Salvini. E siccome nessuno si è ricordato di avvertire Danilo Toninelli dei cambiamenti intervenuti negli ultimi mesi, lui giustamente continua a rivendicare in tv che la chiusura dei porti – cioè la più estrema, illegittima e illiberale tra tutte le scelte di Salvini – senza un certo Toninelli al ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture non si sarebbe potuta fare, e anzi su Twitter accusa esplicitamente Salvini di avere sempre cercato di prendersi i meriti del suo lavoro (suggerirei comunque ai colleghi cinquestelle di parlarci un minuto, prima del voto sul caso Gregoretti, per evitare guai peggiori).
Il problema del Pd non è dunque che è diviso, come si ripete sempre. Semmai che è confuso. Infatti continua a confondere la sinistra con populismo e giustizialismo, e il riformismo pure (solo che in quest’ultimo caso la negazione dei principi cardine dello Stato di diritto e delle minime garanzie costituzionali riguarda solo immigrati, rifugiati e chiunque scappi da torturatori e aguzzini da noi generosamente finanziati).
Si può fare meglio di così. Non dovrebbe essere nemmeno tanto difficile. Ma a giudicare dal dibattito di questi mesi, le ragioni di ottimismo non abbondano. Speriamo nello spirito santo.