Succede che il No nel frattempo cresce. Cresce al punto che la sua portata non è “quantificabile”, nemmeno dai sondaggi, che pure registrano fenomeni esponenziali di crescita: l’ultimo, diffuso da Mentana, lo dà dentro una forbice che arriva al 35%. Ma mancano ancora quindici giorni e può accadere di tutto. A monitorare i social, le pagine (contestatissime) dei big Cinquestelle, o i gruppi dei partiti (di tutti i partiti) autorganizzati dai militanti, se ne ricava una sensazione netta: Il no non solo cresce, ma dilaga. Una moltitudine di no, che mettono in allarme il quartier generale grillino. E allora Di Maio promette, cerca un patto con gli elettori, dicendosi disposto a mettere sul piatto, in tempi rapidi, l’abolizione dei privilegi e una nuova legge elettorale che preveda le preferenze. E anche il Fatto Quotidiano, principale “partner” referendario del Sì, abbassa i toni dopo gli attacchi dei giorni scorsi rivolti da Marco Travaglio ai sostenitori del No.
La sensazione è, però, che il referendum, il referendum più pazzo del mondo, così lo definisce qualcuno, sia come una macchina che corre in discesa senza freni, a tutta velocità, verso il 20 settembre, quando gli italiani, per la prima volta nella storia, si recheranno alle urne nell’inedito e contesto delle misure anti-contagio.
Un referendum che il no sta già vincendo, imponendo l’agenda politica, a differenza di un sì il cui più grande limite è l’essere politicamente incondizionato, un “atto di fede” verso una classe politica che dice di voler “tagliare” ma che poi, nei fatti, “salva” e “legittima”. E che anzi rende più forte e potente, una oligarchia, come la chiama Sabino Cassese, o una “Casta, come la chiama Antonio Gramsci, ancor prima di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che si perpetuerà, nella sua forma più “ristretta”, nell’eventuale prossima legislatura a 600.
Mancano due settimane al “D-Day”. La battaglia politica infuria nei partiti. Domani, la direzione del Partito Democratico, deciderà la linea sul referendum. Una posizione non facile, quella di Nicola Zingaretti, che deve fare i conti con una base spaccata in due. In teoria, il Pd sarebbe per il No (e no ha votato per tre volte in Parlamento) ma per una forma di lealtà verso l’alleato di governo, darà indicazioni per il Sì, con libertà di voto. Salvini e Meloni, continuano a saltare da una piazza all’altra, apparentemente disinteressati al referendum. Ma la base leghista e quella di Fratelli d’Italia, voteranno no. Del resto, lo stesso Salvini (come testimonia un video che gira sui social) quasi incoraggia i militanti leghisti a fare una scelta diversa dalla sua, che “per coerenza” voterà sì.
L’ennesima tegola sui Cinquestelle. Che adesso si trovano nel cul de sac di un Sì al taglio del parlamento che non sembra avere più padri, semmai ne abbia avuti. Un cul de sac da cui ora Luigi Di Maio prova ad uscire. Promettendo e arrabbiandosi. E con l’incubo di quel no che scorre come un fiume carsico nel ventre del Paese.