La Brexit: il miglior spot per l’UE in vista delle elezioni europee

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Da tre anni i media sono pieni di articoli sulla Brexit, sull’evoluzione dei negoziati, sulle indecisioni britanniche, sui ripetuti momenti, negoziati e voti decisivi, immancabilmente risolti in continui rinvii. Manca però un dibattito che allarghi lo sguardo a cogliere il significato più ampio della Brexit a quasi 3 anni dal referendum che ha portato alla decisione britannica di uscire dall’UE. Allora molti temevano – e Trump auspicava – che fosse l’inizio della crisi dell’UE, l’avvio di un processo di disgregazione, la prima di una serie di uscite dall’UE. Al contrario, la Brexit si è rivelata il miglior spot pubblicitario per l’Unione Europea. Tanto che nel Paese più euroscettico d’Europa – l’unico infatti a decidere di uscire – si è svolta la più grande manifestazione europeista della storia, con oltre un milione di persone in piazza a Londra che chiedevano di rimanere nell’UE e 6 milioni che in meno di una settimana hanno firmato una petizione con la medesima richiesta.

L’UE è come la libertà e lo stato di diritto (di cui in fondo è il garante ultimo): ci accorgiamo della loro importanza solo quando vengono meno. La Brexit ha mostrato agli europei quanto tutta una serie di aspetti fondamentali della loro vita dipendano dall’UE, anche se normalmente non lo sanno: come la sicurezza alimentare, nucleare, dei farmaci, dell’aviazione; la tutela dell’ambiente e dei consumatori; una serie di diritti sociali e di tutele dei lavoratori; la politica commerciale, e l’accesso al mercato unico (che rappresenta oltre 2/3 del commercio italiano); il database comune delle polizie europee da cui dipende molta della nostra sicurezza; e per gli irlandesi la pace e l’assenza di un confine fisico tra le due Irlande.

Solo la prospettiva dell’uscita – che non si è ancora materializzata – ha drammaticamente impoverito il Regno Unito. Al momento del referendum era il Paese che cresceva di più nell’UE. Oggi è quello che cresce di meno insieme all’Italia. Intanto la sterlina ha perso circa il 15%, riducendo altrettanto il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni britanniche, il valore dei risparmi e dei beni, ulteriormente erosi dalla riduzione del prezzo degli immobili. Non si contano le imprese e le banche che hanno spostato parti significative delle loro operazioni verso altri Paesi europei, per mantenere un accesso pieno e sicuro al mercato unico. D’altronde, secondo lo stesso governo britannico una Hard Brexit potrebbe provocare danni fino all’8% del PIL, oltre a problemi di approvvigionamento di medicine e cibi deperibili.

Alla fine è questa una delle ragioni profonde – oltre al tatticismo esasperato del confronto politico e alle divisioni dei Tories – per cui il Parlamento britannico non riesce a trovare una maggioranza per nessuna delle possibili opzioni della Brexit, che ricordano ormai le gomme della Formula 1: hard (no deal), medium (accordo commerciale simile a quello dell’UE con il Canada), soft (l’accordo negoziato), super-soft (unione doganale, come la Turchia), ultra-soft (mercato unico, come la Norvegia), fino all’opzione di rimanere dentro e/o di indire un nuovo referendum sul tema. Qualunque opzione è peggio dello status quo, e dunque non c’è una maggioranza per nessuna opzione e si continua a rinviare.

Tuttavia, il dibattito pubblico è in larga parte immutato. L’emergere della realtà che ha smascherato le clamorose bugie della campagna referendaria del Leave ha portato ad una maggiore mobilitazione dei Remainers. Ma sulla scena rimangono anche i Brexiteers, ancorati a motivazioni identitarie e ideologiche e impermeabili a qualunque argomentazione razionale, tanto da esser pronti a rischiare un riaccendersi della guerra civile in Irlanda del Nord, o un nuovo referendum per l’indipendenza in Scozia: due possibilità concrete in caso di una hard Brexit, che metterebbero a rischio la stessa esistenza del Regno Unito come lo conosciamo.

Molti nell’UE, specialmente tra gli europeisti, auspicano che alla fine il Regno Unito ci ripensi e resti nell’Unione. È una speranza sincera, genuina, mossa dalla comprensione e solidarietà per quei milioni di cittadini britannici – per i sondaggi ormai la maggioranza – che stanno per essere privati dei loro diritti di cittadini europei. Per chi si sente cittadino europeo, il loro grido di dolore e il loro chiedere aiuto – come non manca di fare frequentemente Timothy Garton Ash su Repubblica – non può che suscitare una spontanea simpatia. Nelle cancellerie, un cambio di rotta britannico semplificherebbe il negoziato sul prossimo bilancio pluriennale, che oggi avviene sotto la previsione del buco creato dal mancato contributo del Regno Unito.

Ma anche un’inversione della Brexit non è priva di rischi per l’Europa. Metterebbe nelle mani dei nazionalisti una formidabile carta propagandistica: l’UE non rispetta nemmeno il voto in un referendum, trattiene il Regno Unito e si fa quindi beffe della democrazia. In realtà l’UE ha immediatamente accettato e rispettato il risultato del referendum. E l’eventuale cambio di rotta sarebbe interamente dovuto ad una scelta dello stesso Regno Unito, che non sa come uscire dalla fossa che si è scavato da sé. Provocherebbe un’ulteriore polarizzazione del dibattito interno al Regno Unito, con i Brexiteer alla ricerca di una rivincita e di una via per uscire finalmente dall’UE, con la possibilità di una completa ristrutturazione del sistema politico britannico, ed il rischio di un ripetersi di referendum sull’uscita o con l’apertura di negoziati per l’uscita ad ogni cambio di governo. Ciò renderebbe il Regno Unito un partner altamente instabile, non cooperativo, e comunque refrattario e ostile a qualunque avanzamento del processo di unificazione europea su cui avrebbe peraltro un potere di veto, e rispetto al quale tornerebbe a giocare il ruolo di Paese-guida degli euroscettici in grado di coagulare coalizioni di blocco.

L’uscita dall’Unione porterebbe comunque una polarizzazione sul tema dei rapporti con l’UE, e forse una ristrutturazione del sistema politico britannico. Potrebbe portare ad una rottura dello stesso Regno Unito, ed aprire la strada ad un processo verso la riunificazione delle due Irlande. È anche altamente possibili che porti infine ad una nuova adesione all’UE, ma stavolta con convinzione – dopo aver provato i costi dello starne fuori – non con un piede sulla porta e una serie infinita di deroghe e trattamenti speciali, come ora.  Più probabilmente porterebbe rapidamente ad un rapporto esterno, ma fortemente cooperativo con l’UE, fino a forme di adesione all’unione doganale e al mercato unico, che sole potrebbero permettere di superare la polarizzazione del dibattito, assicurando sia la non partecipazione formale all’Unione, che un rapporto sufficientemente stretto da garantire una serie di benefici economici e di diritti dei cittadini cui è tremendamente difficile rinunciare.

D’altronde, la solidarietà verso i cittadini europei britannici che vogliono rimanere nell’Unione potrebbe manifestarsi in molti modi. Il più importante potrebbe essere il rafforzamento della cittadinanza europea, superandone il carattere derivato, dipendente dal possesso della cittadinanza di uno Stato membro. Nulla vieta infatti una modifica dei Trattati che permetta ai cittadini di uno Stato terzo di ottenere la cittadinanza europea a determinate condizioni, come la residenza in uno Stato membro per un certo tempo, che potrebbe essere ridotto nel caso di un precedente possesso della cittadinanza europea. Ovviamente sono molte le variabili e le modalità possibili, ma una simile mossa avrebbe la duplice funzione di tendere le braccia ai cittadini europei del Regno Unito e al contempo di rafforzare l’Unione e la sua cittadinanza.

Tutto questo deve farci riflettere sulle implicazioni delle scelte dell’UE rispetto alla Brexit. E anche dell’Italia verso l’UE, visto che periodicamente alcuni esponenti leghisti – come Bagnai e Borghi, presidenti delle commissioni bilancio di Senato e Camera, non proprio dei peones – ripropongono l’uscita dall’euro e/o dall’UE, come se non avessero colto nulla della Brexit, e avessero dimenticato cosa è successo alla Grecia quando ha solo rischiato di uscire dall’euro, con il sistema bancario al collasso e l’impossibilità per i cittadini di accedere ai propri risparmi. In Italia nelle campagna elettorali i nazionalisti abbassano i toni, perché 2/3 degli italiani sono a favore dell’UE e dell’Euro. Ma di fronte al peggioramento della situazione economica, anche a causa dalle loro politiche, e all’impossibilità di mantenere promesse costose – senza violare le regole europee, la Costituzione e il buon senso – la tentazione irresponsabile di rovesciare il tavolo potrebbe prevalere, come successo in Inghilterra nel referendum. Anche per questo è importante che la campagna elettorale per le elezioni europee si giochi davvero sulle diverse visioni sul futuro dell’Europa, sulle proposte di riforma dell’Unione, e diano un chiaro segnale sul fatto che i cittadini italiani hanno consapevolezza delle lezioni che possono essere tratte dal processo della Brexit e vogliono un’Italia strettamente integrata e impegnata in Europa.

La Brexit: il miglior spot per l’UE in vista delle elezioni europeeultima modifica: 2019-04-13T19:31:26+02:00da bezzifer
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