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Idee, diritti, politica.La versione di Ivan è un invito ad avere il coraggio di un pensiero diverso da quello dominante.

Il libro del senatore Scalfarotto, di Azione-Italia Viva, è un viaggio nella memoria e della memoria in cui l’autore ripesca aneddoti e testimonianze dirette per dare al lettore gli strumenti necessari ad affrontare i tempi difficili che stiamo vivendo.

A prima vista, pur non trattandosi di lungo e noioso poema epico, verrebbe da citare il callicamacheo «μέγα βιβλίον, μέγα κακόν». Di fronte a 414 pagine è infatti difficile non arricciare un po’ il naso e giungere alla sommaria conclusione del «grande libro, grande male». Ma “La versione di Ivan. Storia di un resistente negli anni del populismo” (La nave di Teseo, Milano 2022, 22 euro), uscito martedì, è tutt’altro. A partire dallo stile accattivante e, cosa null’affatto scontata, dal bell’italiano.

Sono infatti lontani i tempi, in cui le aule di Montecitorio e Palazzo Madama echeggiavano abitualmente d’interventi formalmente accurati e in cui i relativi scranni erano occupati da donne e uomini, così padroni della nostra lingua, da essere competenti anche in latino: tra i casi celebri basterà citare, anche perché sedettero alla Camera o al Senato nelle medesime legislature, Alessandro Natta e Paolo Bufalini per il Pci, Giulio Andreotti e Gerardo Bianco per la Dc, Giorgio Almirante per il Msi.

Ma “La versione di Ivan” è soprattutto un viaggio nella memoria e della memoria, che veleggia i mari degli ultimi dieci anni di battaglie politiche. Di alcune di esse, e tra le più importanti, l’autore è stato testimone diretto e a volte protagonista.

Vicepresidente del Partito Democratico dal 2009 al 2013, quattro volte sottosegretario di Stato, attuale senatore di Italia Viva, Ivan Scalfarotto, che in Parlamento siede da tre legislature, svela con parresia retroscena inediti e ripercorre senza infingimenti l’iter di lotte, che continuano a interrogare e far discutere: la contrastata approvazione della legge sulle unioni civili, la proposta di riforma costituzionale Renzi-Boschi bocciata dal referendum popolare del 4 dicembre 2016, il naufragio del ddl Zan, l’ascesa e la caduta del Conte II.

Quella di Scalfarotto è una narrazione altra rispetto a quella dominante. Resta sì “la versione di Ivan”, nondimeno è anzitutto memoir, e per ciò stesso autentico, di chi ha avuto sempre coraggio delle proprie idee e passione per i diritti, pagando spesso l’uno e l’altra al duro prezzo di attacchi di schieramenti non solo avversari ma anche amici o comunque presunti tali. Ne sono caso emblematico quelli venienti dai movimenti Lgbt+, anche se non sono mai mancati esponenti illustri, quali, ad esempio, Franco Grillini, Yuri Guaiana, Paolo Patanè, che gli hanno mostrato aperta e costante stima.

Omosessuale dichiarato dai primi anni Duemila – al coming out in famiglia nel 1992 e sul posto di lavoro nel 2002, quando era direttore delle risorse umane di Citigroup a Londra, tenne dietro quello fatto a Concita De Gregorio in un’intervista comparsa il 6 agosto 2005 su La Repubblica –, fondatore nel 2010 e oggi presidente onorario di Parks – Liberi e Uguali (associazione tra imprese per la valorizzazione di una cultura dell’inclusione delle persone Lgbt+ nei luoghi occupazionali), unito civilmente con Federico Lazzarovich dal 2017, Ivan Scalfarotto si è fatto strada con le sue forze, non già perché “gay di professione” o perché espressione del mondo associativo arcobaleno.

Ragione, forse questa, primaria di un’animosità spesso dai toni scomposti e parossistici, che, mai sopitasi nel tempo, si è acuita lo scorso anno, quando il 27 ottobre, naufragato il ddl Zan a Palazzo Madama con l’approvazione della cosiddetta “tagliola” per ben ventitré voti di scarto – i senatori di Iv in Aula erano 12 –, i movimenti Lgbt+, ne hanno addossato la colpa ai renziani e in particolare a Scalfarotto, per giunta, all’epoca, deputato e sottosegretario all’Interno. Che non a caso vi dedica le oltre quaranta pagine del capitolo 3 dal titolo La profezia che si autoavvera.

Ecco perché La versione di Ivan è innanzitutto monito e invito ad avere il coraggio di un pensiero diverso per affrontare i tempi difficili che stiamo vivendo. «Al mondo chiuso e costruito sulle paure dei populisti e dei sovranisti, alla “Nazione” di cui Giorgia Meloni non smette di parlare – così il senatore e attivista Lgbt+ a pagina 403 – dobbiamo dunque contrapporre un’idea speculare e alternativa. È la Repubblica, quella disegnata dalla Costituzione: una società aperta e mobile, inclusiva e accogliente, laica, fatta di diritti e di doveri, che celebra le proprie differenze come una ricchezza e rimuove gli ostacoli che si frappongono all’uguaglianza tra i cittadini. Un paese consapevole delle proprie possibilità e capace di farne l’uso migliore. La Repubblica non è sovranista per natura, è disposta anzi a limitare la propria sovranità per raggiungere l’obiettivo di un mondo multilaterale, pacificato e cooperativo».

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Cupio dissolvi. Il dibattito para-leninista sulla rifondazione del Pd è il solito gioco delle tre carte.

Se alcuni dei suoi padri, ex post, ne hanno denunciato il peccato originale, non è perché quel progetto sia fallito, ma perché ha funzionato così bene da poter fare a meno di loro.

Il surreale dibattito sulle radici anticapitaliste del Partito democratico con cui si è aperta la sua «fase costituente» rischia di accreditare il luogo comune secondo cui quel progetto sarebbe stato un fallimento sin dall’inizio, avendo avuto la pretesa di unire due tradizioni, post-comunista e post-democristiana, che insieme non potevano stare e che avrebbero fatto meglio a rimanere divise.

Come spesso accade in politica, il luogo comune coniato dagli avversari è stato progressivamente fatto proprio dai suoi bersagli, cioè da buona parte dei fondatori del Partito democratico.

Ma il vero motivo per cui molti di quei dirigenti sono arrivati a tale funesta conclusione è in verità la migliore dimostrazione del contrario. Se infatti, ex post, ne hanno denunciato il peccato originale, non è perché quel progetto sia fallito, ma perché ha funzionato così bene da poter fare a meno di loro.

Di qui la reinvenzione della tradizione, funzionale ad attribuire a Matteo Renzi lo snaturamento del Partito democratico, che da lui sarebbe stato trasformato in un partito di destra neoliberista, rispetto a un mitico passato socialista e rivoluzionario. Salvo poi scoprire, come è accaduto alla prima riunione della «costituente» chiamata a rifondarlo, che il Manifesto dei valori steso all’atto della sua fondazione già conteneva simili tare.

In proposito il gioco delle parti ha raggiunto negli due ultimi giorni vette inarrivabili. Il resoconto del dibattito pubblicato ieri da tutti i giornali non lascia spazio a dubbi circa il significato dell’operazione: ci sono Roberto Speranza e Andrea Orlando che se la prendono con il neoliberismo di cui sarebbe impregnata la carta fondativa del 2007 (difetto di cui sembrano essersi accorti solo nel 2022, e che comunque non ha impedito al primo di fare il parlamentare e anche il capogruppo del Partito democratico fino al 2015, al secondo di fare il parlamentare e il ministro, praticamente a tutto, fino all’altro ieri); c’è Gianni Cuperlo che cita l’undicesima tesi su Feuerbach di Karl Marx: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo» (nella versione di Palmiro Togliatti, ma a dire il vero le cronache non specificano a quale traduzione si sia attenuto Cuperlo, ammesso che non l’abbia citata direttamente in tedesco); c’è la neoparlamentare Caterina Cerroni, coordinatrice dei Giovani democratici, che confida: «Leggevo Chomsky che citava Lenin, secondo cui senza teoria rivoluzionaria non esiste alcuna pratica rivoluzionaria» (dove la crisi dell’idea rivoluzionaria è dimostrata soprattutto dalla pigrizia di non andarsi a cercare nemmeno la citazione alla fonte diretta).

Tutto questo surreale florilegio di Marx e Lenin viene ora perlopiù interpretato come un ritorno alle origini. Sarà dunque utile un veloce ripasso.

Per chiarire quale fosse la teoria rivoluzionaria dei vertici del Partito democratico prima dell’arrivo di Renzi basterebbe ricordare come Pier Luigi Bersani, all’inizio del 2011, non si facesse scrupolo di esortare a una comune alleanza anche un «terzo polo» guidato da Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini (altro che Renzi e Calenda), per non parlare del modo in cui, alla fine di quello stesso anno, decideva di appoggiare l’ascesa a Palazzo Chigi di Mario Monti (con un governo tecnico assai più conservatore e incline all’austerità di quello guidato da Mario Draghi) e insisteva, anche contro una parte della sua segreteria, perché arrivasse fino al termine della legislatura.

Una linea sintetizzata da Massimo D’Alema nel bizzarro slogan «Con Monti, oltre Monti», di cui ha lasciato testimonianza anche in un libro-intervista, scritto appena in tempo per la campagna elettorale del 2013 (Controcorrente, Laterza).

Tra i pochissimi che provarono a correggere quella linea, a onor del vero, c’erano Stefano Fassina e Matteo Orfini. Certamente non c’era Enrico Letta, di cui resta memorabile il biglietto inviato al neopresidente del Consiglio Monti in parlamento, prontamente catturato dai fotografi, in cui definiva il nuovo esecutivo «un miracolo» (per la precisione, perché anche il tono conta, il messaggio si concludeva con queste parole: «Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!»)

La reinvenzione del profilo politico di Letta è infatti la più sbalorditiva di tutte. Ma è ancora niente rispetto al gioco di prestigio con cui, dopo avere eguagliato cinque anni dopo il risultato più disastroso della storia del partito (quello del Partito democratico renziano del 2018), ha pensato bene che in attesa dell’inevitabile congresso, lui e l’intero gruppo dirigente (non) uscente dovessero organizzare nientemeno che la sua rifondazione.

Il summenzionato dibattito para-leninista è la conseguenza inevitabile di questo gioco di specchi, ma anche dell’inerzia di chi dovrebbe pretendere un vero ricambio e si lascia intortare come un allocco. Senza capire che l’esito ultimo di tanti magniloquenti discorsi su Marx, Lenin e la necessità di cambiare il mondo è la demolizione del Pd in quanto tale, cioè in quanto partito capace di rappresentare la grande maggioranza riformista del centrosinistra (contrariamente a un’altra lunga serie di luoghi comuni, il Partito democratico non nacque infatti come partito unico del centrosinistra, ma come unione delle sue correnti riformiste).

Preoccupati di perdere il congresso del partito che c’è, i responsabili della disfatta elettorale stanno provando dunque a inventarsene un altro in questa singolare «fase costituente» preliminare, per cercare di rimescolare le carte ancora una volta. E così, per giustificare la fondazione di un nuovo soggetto, implicitamente o esplicitamente hanno finito per certificare il fallimento del partito attuale.

Eppure è vero l’esatto contrario. Il progetto del Partito democratico è stato un completo successo, caso più unico che raro nella storia della politica italiana in cui la fusione di due partiti abbia portato a un risultato elettorale superiore alla loro somma, tanto da non essere più messo in discussione nei successivi quindici anni (l’altro caso era il Popolo della Libertà, nato proprio per rispondere da destra a quella sfida, che però è durato assai meno).

Se il Partito democratico ha potuto esercitare un ruolo centrale nella politica italiana pur non avendo mai pienamente vinto le elezioni, se i suoi esponenti hanno potuto fare tante volte i ministri, se i suoi gruppi dirigenti hanno potuto fare e disfare tanti governi, la ragione sta proprio nella scelta di lasciarsi alle spalle partiti e partitini di centro, di sinistra e di centrosinistra – quelli sì falliti – buoni solo a farsi la guerra tra loro. Eppure, di questo passo, è proprio lì che rischiano di tornare.

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L’inganno. L’Antimafia non serve affatto a combattere la criminalità organizzata e rovescia lo Stato di diritto

Un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Ecco come cè chi definisce la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura

Il percorso compiuto fin qui conduce a una conclusione impegnativa: l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno. Uso questa parola in senso politico e non morale. Cioè al netto della buona fede e dell’impegno di quanti si dedicano a combattere il crimine, l’Antimafia ha tradito il compito che le è stato assegnato dalla democrazia. L’inganno politico sta nell’idea che l’intera macchina dell’eccezione, raccontata in queste pagine, serva a combattere la mafia. Che l’arbitrio delle confische e la ferocia delle condanne servano a ripagare le vittime. Ma l’inganno si mostra anche al contrario: non è vero che chi critica la legislazione d’emergenza e invoca pene compatibili con i principi costituzionali fa il gioco della mafia e offende le vittime.

Si tratta di un teorema che non ha fondamento. Perché le vittime, e cioè i caduti e le loro famiglie, non sono risarcibili con la vendetta. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono morti per consegnare alle generazioni future l’idea che la mafia sia irredimibile, quindi invincibile. Che l’emergenza sia la cifra permanente delle relazioni tra lo Stato e i cittadini.

Che la lingua del sospetto sia il racconto del paese. Il loro sacrificio vale molto di più. Chi ha pagato il prezzo più alto nella lotta alla criminalità organizzata – cioè i congiunti di quei magistrati, poliziotti, politici, imprenditori, sindacalisti e giornalisti assassinati –, non può trovare consolazione al proprio dolore in una guerra eternata. Che può solo amplificare lo strazio di un martirio vano.

Se questo è vero sul piano morale, lo è ancora di più su quello razionale. Una pena che non redime trascina con sé il rancore tra le generazioni. Senza il ravvedimento dei padri, per lungo, doloroso e rischioso che sia, il destino dei figli è segnato. Uno Stato incapace di superare l’emergenza divide la società in fazioni. Una giustizia che pensa e parla con la lingua del sospetto alza una coltre di fumo sulla vita pubblica, nella quale «mafia» è, allo stesso tempo, tutto e niente.

I falsi protettori di Abele tirano per la giacca gli eroi dell’Antimafia per nascondere la loro cecità ideologica e proteggere le posizioni di potere costruite fin qui. Ma Abele è morto e nessuno di loro può resuscitarlo. Nessuno può restituire alla comunità la dedizione, il rigore, l’ispirazione spirituale di un magistrato come Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 sulla provinciale Caltanissetta-Agrigento, mentre si recava, senza scorta, in tribunale.

Commemorando la sua morte trent’anni dopo, il cugino di questo eroe involontario, don Giuseppe Livatino, rivolge parole impegnative a uno degli assassini, con il quale intrattiene da anni una corrispondenza privata: «Un abbraccio particolare a Gaetano Puzzangaro. Insieme possiamo costruire un volto nuovo di questa terra bellissima e disgraziata, come la definì Paolo Borsellino». Puzzangaro aveva ventun anni quando, insieme ad altri complici, speronò l’auto del giudice, per poi colpirlo a morte. Ha trascorso tre decenni in carcere, gran parte dei quali al 41bis. Ha studiato, si è ravveduto e, grazie al coraggio di una magistrata di sorveglianza, ha ottenuto la semilibertà.

La sua redenzione è stata al centro della causa. Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione.

Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.

Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese. Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, di beatificazione di Rosario Livatino: più volte l’ergastolano è stato chiamato a testimoniare il suo percorso interiore davanti al postulatore del Vaticano.

Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione. Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.

Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese.

Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, e assisterle con le garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia. Vuol dire promuovere nel paese un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere.

Vuol dire, da ultimo, diradare il polverone di sospetti, accostamenti superficiali, pregiudizi cognitivi e morali, rappresentazioni ideologiche con cui l’Antimafia racconta la società, sgombrare il campo dai fantasmi di una mafia che non risparmierebbe nessun territorio e nessun ambito civile del paese, e tornare a studiarla per quello che è oggi.

Non abbiamo della mafia nessuna rappresentazione attuale e attendibile. La macchina dell’investigazione giudiziaria è un’arma spuntata e autoreferenziale, sconnessa dai processi di territorio. Insegue una verità sempre più storica, tra le delazioni di pentiti pronti a tutto pur di garantirsi privilegi e immunità.

Assume l’enorme mole di intercettazioni di cui dispone come unica fonte di prova, in assenza di riscontri efficaci. Cede alle congetture di una polizia giudiziaria che non risponde, come del resto il pm, della raccolta e della proposizione di illazioni inconsistenti. Senza un’iniezione di responsabilità non si ferma la deriva, fuori controllo, del sistema investigativo. Né si ottiene, da una simile articolazione organizzativa e operativa, alcun fotogramma realistico della realtà criminale. Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico.

E che utilizza l’allarmismo come cassa di risonanza della propria propaganda. Questo non vuol dire che la minaccia della mafia nel paese sia scongiurata o fittizia. Né che, dopo i colpi subiti negli anni seguenti le stragi e dopo la sconfitta dei corleonesi, non possa rialzare la testa in forma diverse. I soli ventotto omicidi del 2020, contro gli ottocento o mille di trent’anni fa, non bastano per dire che la mafia è morta. Ma neanche per sostenere il contrario, e cioè che la mafia non uccide più perché non ne ha bisogno, essendosi infiltrata in ogni dove.

La mafia non è solo figlia di una condizione primigenia del potere, ma è sopravvissuta, in centocinquant’anni, ai cambiamenti sociali e alle strutture della modernità, trapiantandosi in due mondi e cogliendo ogni occasione di profitto e di potere. Nessuno ci garantisce che lo sviluppo tecnologico, i cambiamenti culturali, il controllo dello Stato e l’evoluzione della democrazia siano in grado di assorbire per sempre il fenomeno. E tuttavia sappiamo che il suo radicamento pesa su due fattori: la concentrazione del potere in forme occulte e l’arretratezza sociale del suo bacino di affiliazione. La trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxi processi destinati a finire parzialmente in fumo.

Allo stesso modo lo sono le occasioni di lavoro e di socialità e la lotta alla dispersione scolastica che, in alcune aree del Sud, riguarda uno studente su quattro. Sono i ghetti culturali e civili i bacini di incubazione della mafia. Nessuna guerra li ha mai cancellati, nessuna legge speciale li ha mai arginati. Semmai li hanno resi più impenetrabili. La stagione dell’eccezione perciò deve chiudersi. Alle condizioni date, e qui raccontate, la delega della politica all’Antimafia offende il diritto e la civiltà, è inutile, di più, è un danno per la democrazia.

Prima cessa e meglio è. È ora di svelare l’inganno.

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Occhi bendati.Il giustizialismo non è solo una piaga ideologica, ma anche linguistica

Chi è a favore di una giustizia penale spiccia e sommaria viene definito giustizialista. Il termine è stato importato dal justicialismo argentino che però è tutt’altra cosa.

L’immagine della giovane donna dagli occhi bendati è la rappresentazione tradizionale della giustizia che non guarda in faccia a nessuno ed è (dovrebbe essere) uguale per tutti. Per tutti, tranne che per la giustizia stessa. Non solo la vediamo troppo spesso tirata di qua e di là nel confronto politico e nelle battaglie in tribunale, a seconda delle convenienze: lo stesso avviene anche nel linguaggio.

C’è il caso del verbo giustiziare, che rimanda a una dimensione estrema della sanzione penale dove il ristabilimento della giustizia coincide con l’eliminazione fisica della persona ingiusta. Ma non sempre l’ingiusto è davvero tale: Sacco e Vanzetti, per citare un caso celebre, erano forse colpevoli? E quindi si può plausibilmente dire che furono giustiziati? O non piuttosto ingiustiziati? Certo, finirono i loro giorni sulla sedia elettrica in seguito a un legittimo procedimento penale che, sia pure attraverso forzature e omissioni, li aveva giudicati colpevoli, e quindi formalmente (e lessicalmente) l’esecuzione della condanna avvenne “secondo giustizia”. Ma quando, come è accaduto e può sempre accadere in qualche regime autoritario, la pena viene eseguita in assenza di un regolare processo, ossia bypassando il momento in cui la giustizia si reifica e viene sancita?

Di quanti desaparecidos argentini, nei vuelos de la muerte pianificati dal regime sanguinario del generale Videla, si usa dire impropriamente – paradossalmente, offensivamente – che sono stati giustiziati? Per tacere dell’uso estensivo del verbo – che anche il vocabolario Treccani qualifica come “erroneo” ma che è comune nel linguaggio giornalistico – come sinonimo di uccidere, assassinare: “commerciante reagisce a una rapina, giustiziato a colpi di pistola da uno dei banditi”. Al verbo giustiziare può essere accostato il sostantivo giustiziere, che è l’esecutore di una condanna capitale, in quanto tale sinonimo di boia, carnefice, ma anche “chi pretende di farsi giustizia da sé, di vendicare torti fatti a sé o ad altri” (vocabolario Zingarelli). Che ne è in questi casi della giustizia, della giovane donna bendata? Forse si tiene gli occhi coperti per non leggere, per non vedere la deriva linguistica che le viene inflitta.

Ma se per avventura le cascasse la benda, potrebbe pensare, a forza di venire tirata di qua e di là, di essere finita dall’altra parte del mondo: in Sud America. Nella sua famiglia lessicale allargata troverebbe infatti due sostantivi che stenterebbe a riconoscere, per ragioni semantiche come pure morfologiche: giustizialismo e giustizialista.

Complice il linguaggio giornalistico – che, se non le ha inventate, a partire almeno dagli anni dell’inchiesta Mani Pulite ne ha canonizzato l’accezione e propagato l’uso – queste due parole sono entrate prepotentemente nel nostro linguaggio. Nel dibattito pubblico l’accusa di giustizialismo è l’arma semanticamente impropria brandita da garantisti più o meno sinceri (generalmente ascrivibili allo schieramento di centro-destra) contro i presunti fautori (generalmente ascrivibili al centro-sinistra) di una giustizia penale spiccia e inflessibile, talora sommaria, poco ponderata, ignara di cautele e distinguo, magari neppure sorretta da prove inconfutabili.

Lasciamo impregiudicata la questione di diritto. Sta di fatto, però, che nella lingua e nel paese da cui la parola è stata importata, lo spagnolo e (di nuovo) l’Argentina, il justicialismo è tutt’altra cosa. Lo ricordava Alessandro Galante Garrone, giurista e storico di antica matrice azionista, in un fondo pubblicato sulla Stampa del 31 dicembre 1996: «Si dimentica un po’ da tutti che questo termine è storicamente nato con riferimento preciso al comportamento e alla figura umana del dittatore argentino Perón e al suo regime piuttosto nefasto e ridicolo, quasi sfiorante l’operetta».

Il generale Juan Domingo Perón, presidente dell’Argentina dal 1946 al ’55 e poi ancora, dopo l’esilio, dal ’73 fino alla morte nel ’74, aveva costruito il suo movimento politico come una terza via tra capitalismo e socialismo, ispirandosi alla “giustizia sociale” delle encicliche papali: giustizialismo è appunto una “parola macedonia”, nata dalla fusione di giustizia e socialismo. Soltanto la consapevolezza di questa origine sincratica rende ragione della desinenza -lismo, che nell’accezione più comune data alla parola in Italia resta morfologicamente inspiegata e inspiegabile; a meno di ricondurla all’infrequente aggettivo giudiziale, detto di “ciò che è relativo alla giustizia” (sistema giudiziale, ordinamento giudiziale), che è però un vocabolo neutro, alieno dalle connotazioni peggiorative-afflittive riversate nel nostro giustizialismo (semmai si potrebbe ipotizzare, per esprimere il concetto, un più esplicito “giustiziarismo” che si riallaccerebbe al verbo cruento di cui sopra).

La protesta filologica di Galante Garrone non ha mai prodotto risultati, nonostante questo “uso disinvolto” del termine in questione sia stato discusso anche in un convegno del 2002 a Milano e l’anno seguente in un saggio del filosofo del diritto Mario G. Losano (“Peronismo e giustizialismo: significati diversi in Italia e in Sudamerica”, in Teoria politica, XIX, 2003). E così questa parola, nella sua accezione impropria, ha proseguito indisturbata la sua marcia inarrestabile ed è oggi registrata in tutti i dizionari, accanto all’accezione propria – sebbene negli ultimi tempi venga pronunciata meno, in concomitanza forse con lo smarrimento di una sinistra così sfiduciata da aver perso pure la tentazione di ricorrere alla via giudiziaria per ribaltare il risultato elettorale.

È inevitabile, sono i parlanti che decretano il significato delle parole, anche contro ogni ragione linguistica. Una parola sbagliata è un po’ come la Coca-Cola, inventata quale medicina contro il mal di testa e diventata invece la bevanda di successo che ben conosciamo; giustizialismo è un termine efficace, ormai accettato e compreso da tutti nel suo significato secondario, più pregnante e anche più appropriato di forcaiolo o manettaro. Alla giovane donna con gli occhi bendati non resta che adeguarsi: tuttalpiù potrà dotarsi di una seconda benda e usarla per coprirsi le orecchie.

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Faster, please (fate presto grazie).Il piano per costruire l’alternativa al bipopulismo ancora non c’è (e non si capisce bene perché)

Italia Viva e Azione sono pronti a federarsi, ma di fronte al possibile fallimento di Meloni, alla prossima estinzione di Forza Italia e alla trasformazione del Pd in un partito radicale del Pigneto, di lotta e di schwa, bisogna darsi una mossa e annunciare le tappe del nuovo soggetto politico né di qua né di là.

A un certo punto del nostro Festival di fine novembre, mentre Carlo Calenda spiegava che dall’alleanza elettorale del 25 settembre scorso si passerà entro la fine dell’anno alla federazione tra Azione e Italia Viva, in attesa della fondazione di un nuovo partito unitario in vista delle elezioni europee del 2024, dal pubblico del Teatro Parenti di Milano si è alzata una voce: «Fate presto».

Non mi pare che Azione e Italia viva stiano facendo presto, semmai stanno facendo con calma, con prudenza, forse con eccessiva circospezione. Magari hanno ragione Calenda e Renzi e non lo spettatore di Linkiesta Festival, che io ho applaudito con convinzione, perché i partiti sono organizzazioni novecentesche, anche questi di nuovo conio, e le loro liturgie hanno tempistiche e modalità più complesse di quelle necessarie a scrivere un tweet o a farsi sentire in un teatro.

Ma c’è un ma. Il ma è che aspettare è un po’ morire, anche solo di pizzichi.

Proprio perché costruire un nuovo partito che vuole essere maggioritario è una cosa seria, al contrario di un post su Facebook o di una storia su Instagram, non si può improvvisare né rimandare il tutto a un generico 2023, tanto più che i temi, le idee, le proposte e il posizionamento politico sono ben chiari a tutti. Manca la road map, non si conoscono le tappe del percorso, non è stata definita la narrazione. E non si capisce bene perché nessuno ne voglia parlare e rimandi l’argomento al prossimo anno (l’eccezione è stata un bella discussione condotta da Lidia Baratta a Linkiesta Festival con Sandro Gozi, Giulia Pastorella, Lisa Noja, Ivan Scalfarotto e Alessia Cappello).

L’intervento più centrato all’Assemblea nazionale di Italia viva di ieri a Milano l’ha fatto un ex deputato di Forza Italia, Guido Della Frera, il quale ha invitato Calenda e Renzi a lasciar perdere il loro passato, cioè il Pd, e a impegnarsi fin da subito a occupare il vuoto politico creatosi al centro, soprattutto a causa dell’egemonia della destra estrema, senza apparire come i leader di un gruppo di fuoriusciti di sinistra che sogna la rivalsa e senza aspettare che a dettare i tempi siano la prossima estinzione di Forza Italia e la deflagrazione del Pd.

Della Frera ha ragione, Calenda e Renzi non devono farsi trovare impreparati e ancora in una fase pre costituente quando il governo Meloni perderà colpi, Forza Italia sparirà e il Partito democratico si sarà consegnato a Giuseppe Conte o all’irrilevanza o a entrambi.

La Federazione tra Italia Viva e Azione, i gruppi parlamentari comuni, le proposte unitarie sono un bel passo avanti rispetto a luglio scorso, quando i due partiti pensavano di andare al voto separati, ma non sono ancora sufficienti a far capire al paese che sta nascendo davvero una forza politica nuova, europea e atlantica, liberale e democratica, repubblicana e draghiana e nemmeno a rassicurare tutti che il processo è irreversibile.

Come ha detto Sandro Gozi, sempre al summit milanese di Italia viva, il tango di Renzi e Calenda è uno spettacolo interessante, ma il nuovo partito dovrà andare oltre il duopolio, dovrà essere aperto e inclusivo e capace di aggregare altre forze politiche, associazioni e movimenti. In una parola, il nuovo partito dovrà essere, almeno formalmente, un partito “scalabile”.

Il dibattito sulla forma partito è quanto di più noioso esista in politica, ma per valutare la credibilità dell’operazione politica bisognerebbe sapere in linea di massima che cosa succederà dopo la nascita della federazione (che, ricordiamolo, tra Azione PiùEuropa non ha funzionato). Renzi ieri ha detto che Italia Viva dovrà fare altro rispetto alla Federazione con Azione, dovrà impegnarsi verticalmente su sei diverse aree programmatiche. Un modello interessante, ma la domanda da porsi è se questo impegno di partito allontana o avvicina la formazione di un nuovo soggetto politico plurale e maggioritario in grado di contrastare il bipopulismo.

A febbraio ci saranno le elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio e il Pd sceglierà il nuovo segretario. E febbraio è già qui, febbraio è già ora. Vedremo come andrà il voto in Lombardia, dove il centrodestra ha perso l’ala moderata di Letizia Moratti e il Pd ha scelto di non vincere le elezioni per affermare un’identità socialdemocratica intorno a un grottesco «noi siamo quelli del Conte due» rivendicato del candidato presidente Pierfrancesco Majorino, sabato mattina a Milano, per sottolineare la distanza del suo Pd dalla Lega putiniana di Salvini.

Ecco, l’alternativa al bipopulismo italiano, quello formato dalla destra filo russa e dalla sinistra infatuata da Conte, esattamente dal Conte due che fece sfilare l’esercito russo in Lombardia, va immaginata adesso, subito, in modo che sia pronta ad accogliere profughi e dissidenti se Forza Italia dovesse sparire anzitempo e se il Pd veltroniano a vocazione maggioritaria si tramutasse in un partito radicale del Pigneto, in una formazione anticapitalista di lotta e di schwa guidata da Elly Schlein.

Certo, potrebbe diventare segretario del Pd un dirigente di partito come Stefano Bonaccini, coadiuvato da Dario Nardella, sostenuto da Giorgio Gori e da Matteo Orfini e votato dalle organizzazioni territoriali di Vincenzo De Luca in Campania e di Michele Emiliano in Puglia, nel qual caso probabilmente continuerebbe l’attuale agonia di un partito incapace di scegliere e saremmo di nuovo punto e a capo. Comunque vada a finire dentro gli attuali partiti, però, costruire l’alternativa al bipopulismo è un’opportunità che prima o poi qualcuno dovrà cogliere.
Faster, please.

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SOLO Fumo negli occhi.L’annuncio dello scioglimento della polizia morale è solo propaganda del regime iraniano (per ora)

La notizia circolata nel fine settimana non è mai stata confermata dal governo di Teheran. E secondo il New York Times sarebbe una concessione minore per placare i manifestanti che chiedono la fine della Repubblica islamica.

Nel fine settimana le autorità iraniane hanno annunciato di valutare una modifica della legge che obbliga le donne a indossare il velo islamico, l’hijab. Le dichiarazioni del regime sono vaghe e non è chiaro in cosa consista il cambiamento, quanto sarà radicale e quanto invece rimarranno rigide le norme sull’abbigliamento femminile. Secondo il New York Times, ad esempio, un canale televisivo di Stato avrebbe spiegato che queste informazioni sono state estrapolate dal contesto e non è vero che il governo si sta tirando indietro dalla legge sull’hijab obbligatorio.

Almeno però è un segnale di apertura dopo mesi di proteste represse con la violenza. L’obbligo del velo, infatti, è stato il punto di partenza delle proteste iniziate ormai undici settimane fa, dopo la morte in carcere di Mahsa Amini, giovane donna arrestata a Teheran – proprio perché non indossava in maniera corretta il velo – e morta durante la detenzione.

Un alto funzionario iraniano ha detto anche che l’Iran ha abolito la polizia morale. «La polizia morale è stata abolita dalle stesse autorità che l’hanno installata», aveva detto sabato il procuratore generale Mohammad Javad Montazeri, durante un incontro in cui i funzionari stavano discutendo delle proteste di piazza.

Ma la polizia morale fa capo alla polizia iraniana, non al procuratore generale, e ieri alcune indiscrezioni hanno lasciato intendere che il governo potrebbe cercare di minimizzare le dichiarazioni di Montazeri.

Come spiega il New York Times, infatti, non è chiaro se la dichiarazione costituisca una decisione definitiva del governo teocratico, che non ha ancora annunciato ufficialmente l’abolizione della polizia morale, né l’ha negata.

Anche in caso di abolizione della polizia morale «è improbabile che il cambiamento plachi i manifestanti che si stanno ancora scontrando con altre forze di sicurezza», si legge sul quotidiano americano.

Secondo molti attivisti iraniani le voci sullo scioglimento della polizia morale sono solo una mossa di propaganda da parte del governo per distrarre la folla dalle richieste dei manifestanti che vogliono la fine della Repubblica islamica. La concessione, infatti, sarebbe troppo piccola, troppo poco, troppo tardiva rispetto alle reali esigenze della piazza. Anche Jalal Rashidi Koochi, membro del parlamento iraniano, ha detto che l’abolizione della polizia morale sarebbe «un’azione lodevole ma tardiva».

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Un passo indietro. Il governo cambia idea sui pagamenti elettronici.

La premier Giorgia Meloni ha detto che la soglia di 60 euro sotto la quale i commercianti possono rifiutare di usare il Pos è «solamente indicativa, si può abbassare»

La stretta al Pos si è già allentata. La premier Giorgia Meloni ha detto che la soglia dei 60 euro sotto la quale un commerciante può rifiutarsi di accettare un pagamento elettronico è solo «indicativa» e «per me può essere anche più bassa». Lo ha annunciato durante la prima rubrica social “Gli appunti di Giorgia”.

Come spiega Repubblica, la soglia che esonera gli esercenti dall’obbligo di accettare pagamenti con il bancomat e la carta di credito cambierà. Passerà «da 60 a 40 euro, almeno questo è l’obiettivo per salvare un segnale che viene calato nelle storie del gelataio e dell’edicolante per ribadirne la necessità», si legge nell’articolo. Così come avrebbe senso, secondo la premier, l’intervento sul contante: «Il tetto sfavorisce la nostra economia» e per questo è stato alzato.

Non ci saranno quindi battaglie identitarie su questa cosa. Non è irrinunciabile per l’esecutivo che deve mettere a punto la legge di Bilancio. «È il richiamo alla trattativa in corso con Bruxelles a confermare che il governo non farà le barricate se la Commissione europea dovesse fermare la misura perché incoerente con gli obiettivi sulla lotta all’evasione fiscale», si legge su Repubblica.

Si vuole evitare, ovviamente, lo scontro con l’Unione europea proprio alla vigilia della richiesta del ministero del Tesoro per ricevere da Bruxelles la terza rata del Piano nazionale di ripresa e resilienza, da 19 miliardi di euro, indispensabile per provare a chiudere alcuni dei 55 obiettivi da raggiungere entro il 31 dicembre: «Dobbiamo tenerci buona la Commissione», spiega una fonte di governo a Repubblica.

L’ammorbidimento delle posizioni sul Pos è un segnale che il governo è disposto a modificare la sua manovra di Bilancio prima dell’inizio dell’esame da parte del Parlamento. Vale anche per Opzione Donna, la misura per l’anticipo pensionistico rivolto alle lavoratrici, che dovrebbe cambiare ancora. Adesso si lavora all’ipotesi di cancellare il requisito dei figli, inserito nella Finanziaria, mentre restano gli altri criteri: caregiver, invalidità pari o sopra il settantaquattro per cento, licenziate o dipendenti di imprese in crisi.

«Secondo il nuovo schema», spiega Repubblica, «l’uscita sarebbe a 60 anni per tutte, non più a 59 (con un figlio) e a 58 anni (con due figli). Significa uno o due anni di lavoro in più prima della pensione anche rispetto alle regole in vigore quest’anno (uscita a 58 anni per le dipendenti, a 59 anni per le autonome). Più indietro una seconda ipotesi, che è fuori dall’interlocuzione tra la premier e la titolare del Lavoro Marina Calderone. Nella maggioranza c’è chi spinge per una proroga nel 2023 della versione attuale di Opzione Donna, ma solo per 6-8 mesi».

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Onda laburista.Il Pd deve ritrovare un’identità chiara e coerente da partito di sinistra, dice Elly Schlein.

Onda laburistaIl Pd deve ritrovare un’identità chiara e coerente da partito di sinistra, dice Elly Schlein.La deputata 37enne si è candidata ufficialmente alla segreteria, diventando così la terza ad annunciare la corsa alle primarie dopo Paola De Micheli e Stefano Bonaccini

Elly Schlein è candidata ufficialmente alla segretaria del Partito democratico. L’annuncio ufficiale è arrivato dopo settimane di rumors su una sua possibile corsa alle primarie, ed è arrivato da Roma, con un lungo comizio al Monk, in cui davanti a seicento persone ha sostenuto che il partito deve ritrovare una identità «chiara, comprensibile e coerente», da partito «di sinistra».

La deputata è la terza a candidarsi ufficialmente alla guida del partito dopo l’ex ministra Paola De Micheli e il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. «Non siamo una corrente nuova, siamo un’onda», ha detto Schlein da Roma. «E se lo facciamo insieme io ci sono, non mi tiro indietro. Costruiamo insieme questa candidatura, per dimostrare che io posso-diventare-la-segretaria-del-nuovo-Partito democratico».

Dalle pagine del Corriere della Sera, Monica Guerzoni spiega che a seguire il discorso della deputata, ex vice di Bonaccini, mancavano alcuni dei volti attesi del partito: «Piove forte, eppure tanti ascoltano fuori sotto l’ombrello, tra ping pong, biliardini e murales. Ma dove sono i parlamentari del Pd? Franceschini si è fatto vedere? No, ma ci sono Peppe Provenzano, Alberto Losacco, Michela Di Biase, Chiara Braga, Laura Boldrini, Arturo Scotto».

Non poteva mancare, dalla candidata, un attacco alla premier Giorgia Meloni, che «guida la peggiore destra di sempre», e al governo per «le gaffe quotidiane di ministri inadeguati», per i condoni e la manovra «contro i poveri» e perché non tutte le leadership femminili sono femministe: «Non ce ne facciamo niente di una donna premier che non difende le altre donne».

Il modello che Schlein vorrebbe impiantare nel Partito democratico dei prossimi anni, si legge sul Corriere, è quello della sinistra laburista: ecologia, lavoro di qualità, sanità pubblica, redistribuzione della ricchezza, lotta alle diseguaglianze e alla precarietà, progressività fiscale e diritto alla casa. E poi, ancora, reddito di cittadinanza, in una forma o in un’altra. Nel suo discorso, infatti, Elly Schlein ha chiesto un «rinnovamento a tutti i livelli» nel partito, sia nella dirigenza sia nelle priorità, cercando di capire «come cambiare il modello di sviluppo neoliberista che si è rivelato insostenibile per le persone e per il pianeta».

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Come può una somara raccomandata reggere con uno come Renzi….una figuraccia per la RAI è per Lei, quando Renzi gli dice…attenta perché Casalino può incazzarsi….che figura di merda lei è la RAI….spero che facciano sparire questo Canone…..cosi dovranno trovarsi un lavoro nei campi….già così hanno ridotto la RAI peggio di una TV del Burundi

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Matteo Renzi intervistato da Lucia Annunziata……”Non parlerò di Conte, non vorrei metterla in imbarazzo ….poi la chiama Casalino”.

Come può una somara raccomandata reggere con uno come Renzi….una figuraccia per la RAI è per Lei, quando Renzi gli dice…attenta perché Casalino può incazzarsi….che figura di merda lei è la RAI….spero che facciano sparire questo Canone…..cosi dovranno trovarsi un lavoro nei campi….già così hanno ridotto la RAI peggio di una TV del Burundi. Ogni volta dimostra di essere faziosa, contraria a priori, senza argomenti. Insomma il contrario di come dovrebbe comportarsi un giornalista. Tutte le volte ne esce nel confronto con Renzi con figuracce e con la rabbia impotente.

#Annunziata intervista Crosetto,lasciandolo parlare senza mai infierire, commiatandosi con lui con complimenti.
È chiaro che la “Signora” ,essendo seduta in una bella poltrona di servizio pubblico e potendo ambire anche a qualcosa di meglio,cerca di lisciare il potente di turno…
Arriva Renzi e comincia ad ironizzare sulle faccette per seminare zizzania con Crosetto,ad interrompere, lasciando in secondo piano l’avvenimento importante di oggi per il Terzo Polo a Milano,riportandolo sempre sul Congresso del Pd di cui Renzi è fuori,insinuando strategie perché quattro candidati sono stati renziani,impedendo di tirare fuori Conte perché è il suo pupillo e Casalino potrebbe rimanerci male e telefonare…concludendo alla fine con una perla da perfetta “sciacquetta”:lo invita a chiedere scusa a #Ranucci,perché la professoressa esiste veramente..
Incredibile!
È lo specchio della morente sinistra ,infangante,sinistrorsa sessantottina,odiatrice…sdraiata sulla speranza del “travaglio” contiano!

Il mondo dei quaquaraqua, dei ominicchi, dei quaquaraqua, cerca disperatamente, di infierire vilmente contro un uomo vero, grande politico, uomo perbene, che come sempre deve schivare schizzi di merda, che, non solo non lo sfiorano, ma tornano velocemente nel cessò in cui dovrebbe stare! Matteo con il suo sorriso, credo che la bile all Annunziata e i suoi compagni di fango e di merda stiano per scoppiare! Lei se la canta se suona, e Renzi la crepa! Che goduria! E andata per smerdare, ma la merda è ritornata nel cesso dove è abituata a stare!

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Federazione fredda.Renzi, Calenda e il partito unitario che a un certo punto verrà.

Anche Italia viva, dopo Azione, sceglie di federarsi e di avviare la costruzione di un nuovo soggetto politico. La novità è l’impegno in prima persona dell’ex premier che ieri è tornato ad offrire al Pd la possibilità di vincere in Lombardia (con Majorino vice di Moratti)

Una federazione è meglio di niente, certo, ma il partito unitario Azione-Italia viva dovrà aspettare un altro annetto pronto per lanciarsi alla sfida delle Europee 2024 che è il vero traguardo strategico.

Così l’Assemblea nazionale di Italia viva ha dato mandato a Matteo Renzi di avviare la federazione con Azione di Carlo Calenda (che aveva tenuto la propria riunione nazionale il 19 novembre a Napoli), il percorso dunque è avviato ferme restando le due soggettività politiche anche se i gruppi parlamentari sono già unificati e i dirigenti lavorano di concerto, a partire (pochi ci scommettevano) da Renzi e Calenda. Il quale plaude al «cammino comune» all’insegna di «concretezza e serietà contro il qualunquismo e il populismo di destra e di sinistra».

Nessuno dubita sulla irreversibilità del processo e proprio per questo forse sarebbe stata una novità più forte fondere da subito le due formazioni, ma si guarda non al domani ma al dopodomani – come diceva Aldo Moro – cioè a quelle Europee (con la proporzionale) dove Renew Italia, o come si chiamerà il nuovo partito macroniano, punta nientemeno che al primo posto, considerata la fragilità della sinistra e le divisioni nella destra europee, per cui è la famiglia guidata dal presidente francese quella a essere più in salute: e da noi è la futura formazione Calenda-Renzi a sperare di trarne un dividendo.

In un quadro internazionale segnato da sconvolgenti mutamenti di potere, starà alla famiglia liberaldemocratica rilanciare una nuova centralità europea ed è questo dunque il quadro generale disegnato da Renzi all’assemblea milanese nella quale il leader ha detto chiaramente di voler restare in campo e di avere l’intenzione di coltivare la sua pianta irrobustendone l’iniziativa politica attorno all’acronimo «Scelta» che sta per sanità, cultura, Europa, lavoro, territorio e ambiente.

I soliti capitoli, si dirà, ma è pur vero che le questioni sono quelle, con un’enfasi particolare sulla sanità, con la ripresa di una vecchia idea renziana tornata alla ribalta in queste settimane: prendere i trentasette miliardi del Mes, perché «senza Mes non c’è uguaglianza» – i poveri non possono ricorrere al privato ma devono beccarsi mesi di attesa per un esame – e non regge l’obiezione che si tratta di soldi da restituire perché comunque «le condizionalità del Mes sono inferiori a quelle del Pnrr», ha detto Renzi rivolto alla premier, chiedendole di ascoltare questa richiesta.

Ma tornando alle prospettive del Terzo Polo, o come si chiamerà il nuovo partito, c’è da dire che la concorrenza polemica con il Pd non si attenua, anzi, e non ce n’è solo per il solito Enrico Letta, ormai punching ball per chiunque passi per strada, ma anche per uno come Matteo Ricci che di Renzi ha detto che «disturba», lui che «pochi anni fa si spenzolava in cori adulativi sulla mia persona» e che proponeva di mettere Renzi nel simbolo elettorale.

Renzi ne ha avuta una anche per Elly Schlein, che ieri ha ufficializzato la sua candidatura di sinistra alla guida del Pd, che «noi abbiamo fatto eleggere al Parlamento europeo», lei da Roma ribatte che è stata eletta perché ha preso le preferenze: ma sono vere entrambe le cose.

Schlein è scesa in campo, com’era previsto, prenderà la tessera del Pd per diventarne la segretaria spostandone vistosamente l’asse politico verso sinistra, agli antipodi non solo della stagione renziana, ma anche di quella fondativa del partito che credeva nel valore del mercato, della concorrenza, del garantismo e via dicendo e in questo porta un elemento di chiarezza, la sinistra in campo contro il riformismo di Stefano Bonaccini (lo scontro sarà tra questi due), una sinistra zavorrata da certi appoggi come quello di Dario Franceschini e di diversi dell’entourage di Letta.

Ma è una partita che non riguarda certo Renzi, che semmai potrebbe persino trarre vantaggio da una vittoria della giovane candidata così contrassegnata a sinistra; mentre il Pd oggi sta per «Partito Decoubertiniano, l’importante è partecipare» e non vincere.

E qui cade a fagiolo la vicenda delle regionali lombarde nella quale «se Majorino facesse il vice della Moratti la prospettiva di vincere sarebbe apertissima», una proposta che Renzi butta là sapendo che ormai è tardi, ma è un modo per mettere agli atti l’errore del Pd nel respingere l’appoggio a Letizia Moratti, «sul fatto che sia di destra ci eravamo arrivati da soli, ma lei con la destra ha rotto proprio sulla sanità».

Per il resto, botte da orbi a «Giuseppe Condono Conte», così chiamato come i bluesman che mettono un sostantivo tra nome e cognome («Noi dobbiamo essere esattamente il contrario di lui che dice tutto e il contrario di tutto, cioè niente») e conferma dell’opposizione al governo Meloni, il che non toglie che «Carlo» abbia fatto bene a provare a chiedere miglioramenti alla prima bozza della legge di Bilancio.

Non ha ripetuto, Renzi, che Giorgia nel 2024 rischia. Ma la data che la premier e tutta la politica italiana devono segnare in rosso è quella, l’anno delle elezioni europee con Renew in campo, una novità politica che si è messa lentamente in moto.

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