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Nuovi tempi, vecchi errori in forma nuova.Non sono nè un giornalista, nè un cronista, sono un cittadino ITALIANO che scrive come la vede. Che esprime semplicemente il suo punto di vista, che non siete obbligati a condividere. Libero io e liberi tutti, il pensiero non è un canarino.

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La Giornata della Memoria non è solo ricordo – Blog di bezzifer

 

 

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Giuseppe Conte batte cassa agli ex parlamentari del Movimento 5 Stelle: devono restituire 30mila euro del Tfr.

Pur di fare parlare di sé farebbe qualsiasi cosa e proprio vero sei un egocentrico e questi soldi te li puoi sognare ,visto che sei un avvocato fai causa e vediamo come finisce. Fatti restituire pure i soldi del reddito di cittadinanza che il tuo presidente dell’INPS Tridico ha dato a chi non gli aspettava e non ha controllato!

Che il signor conti l’avvocato delle cinque stelle non sa che altro si deve studiare prima il reddito di cittadinanza adesso vuole che tutti i parlamentari delle cinque stelle devono restituire 30.000 € e scusami e tutti i tuoi compagni parlamentare PD 12 passati cioè tutti tutti quanti dovete lasciare dei miliardi allora che stanno cinquant’anni lì a governare. COSA PUO FARE LA FAME DI POLTRONA E DANE. AD UN AVOCAPO IPOCRITA E MOLTO PERICOLOSO! PERCHE I BOCCALONI ITALICI LO ADORANO.

Strascico da 30mila euro per gli ex parlamentari del Movimento 5 StelleGiuseppe Conte batte cassa con gli intenti che effettivamente sono stati alla base della nascita del partito voluto da Beppe Grillo: nessun privilegio economico per chi veniva eletto (per non più di due mandati). Ora Conte scava un solco ben avvertibile fra chi è restato fedele al Movimento e chi se n’è andato: il nuovo regolamento prevede che chi è ancora pentastellato versi il 20% dei circa 45mila euro ricevuto quale assegno di solidearietà, ovvero il trattamento di fine rapporto ricevuto alla fine del mandato.

E chi invece ha aderito alla scissione? Come scrive Repubblica, per loro saranno fatte valere le regole originarie: al movimento dovranno essere versati 30mila euro. Inoltre sono previste “azioni di recupero” per chi non salda. Di Maio verrà allora inseguito fino in Medio Oriente, qualora divenisse emissario nel Golfo per conto dell’Unione europea?

Per chi è ancora o entrerà nel Movimento resterà il criterio dell’auto-tassazione con nuove percentuali che vedono in calo le cosiddette “restituzioni” alla collettività:  fatto salvo il tetto di 2.500 euro da versare, 2mila andranno al partito e 500 al partito, 500 alla collettività. Il fatto è che i parlamentari grillini sono drasticamente calati: ora sono 80 rispetto al record di quota 330 nel 2018.

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Giuseppe Conte, l’ipocrita pericoloso

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l’altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori “l’altro”. Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Ricordate la settimana scorsa? Nella puntata de La Buvette ci siamo occupati del maxi bonus da 5.500 euro che i parlamentari si sono fatti per natale. Un bonus tecnologico per l’acquisto di tablet, pc e telefonini di ultimissima generazione. Un provvedimento che ha fatto discutere. La determina? È stata firmata anche dal grillino Filippo Scerra che ora (dopo le polemiche) si rimangia tutto. Nonostante lui stesso abbia difeso il bonus sui suoi canali social. “La scorsa legislatura la dotazione era di circa 7.500 euro complessivi e adesso si parla di 5.500 più un piccolo budget per spese cancelleria (320 euro ). Cioè questa operazione ha fatto risparmiare al bilancio della Camera”, aveva scritto su Facebook il deputato 5 Stelle, travolto poi da un fiume di commenti negativi. Diciamocelo chiaramente: una bella figura di m**da.

L’ordine di cavalleria tra i grillini ora è “indietro tutta”. Anche Giuseppe Conte si smarca e ai microfoni de Le Iene, il programma di Italia uno, incalzato dalle domande di Filippo Roma dice: “Non siamo riusciti a bloccare la determina”. Una sciocchezza! La verità vera e che molti parlamentari, soprattutto i grillini, pensavano che la notizia passasse inosservata. In sordina. Speravano che nessuno se ne accorgesse. A confermarlo anche l’ex parlamentare ed ex grillino Sergio Battelli che raggiungiamo al telefono.

Con quale coraggio Giuseppi può scendere in piazza per difendere il reddito di cittadinanza se poi lui e i suoi parlamentari spendono 5.500 euro per comprarsi il telefonino? Ed è proprio per queste ragioni che l’avvocato del popolo oggi, dopo il fiume di indignazione, dice: “Facciamo un gesto simbolico per le scuole che sono senza dotazioni. Sono disponibile a spendere i 5.500 euro che mi spettano da deputato per comprare tablet e computer per le scuole”. Insomma, una bella pezza.

L’autoproclamato avvocato del popolo è andato in cortocircuito. Da un lato la difesa dei più deboli, dall’alto quella della casta. Chissà se scenderanno in piazza per protestare (magari a Montecitorio) anche i suoi parlamentari. Già immagino il coro: “non toglieteci il bonus, non toglieteci il bonus”. Ora vedremo in quanti di loro regaleranno tablet e pc alle scuole. Chiaramente senza piangere.

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“Punire chi diffama è questione di civiltà”. Renzi contro le minacce social.

Si … MATTEO ha ragione! Liliana Segre ha denunciato chi l’ha insultata sui social. E ha fatto benissimo. Come ha fatto benissimo Giorgia Meloni a denunciare chi minacciava sua figlia.
Sui social è giusto criticare. MA BASTA CON INSULTI, MINACCE, OFFESE
Punire chi diffama è una questione di civiltà!
Matteo Renzi.

I politici di ogni schieramento sembrano essere concordi sulla necessità di porre finalmente un freno alla escalation di violenza social. La critica è d’obbligo, essendo l’Italia una democrazia, ma troppo spesso sconfina nelle minacce e nella violenza verbale. La maggior parte dei personaggi pubblici tende a ignorare il fenomeno, evitando di dare adito a commenti e di “pubblicizzare” certi individui, ma ci sono dei limiti che non dovrebbero mai essere superati e che, sempre più frequentemente, vengono oltrepassati. Ne sanno qualcosa, per esempio, Giorgia Meloni e Liliana Segre, troppo spesso al centro delle invettive oltraggiose, oltre che per la carica che ricoprono, per le persone e donne che sono. Un concetto ribadito anche da Matteo Renzi, che ha espresso solidarietà e chiesto maggiore attenzione verso i social.

Il presidente del Consiglio è stato oggetto negli ultimi giorni di attacchi vili e di una violenza inaudita, che non solo hanno colpito lei ma anche la sua famiglia, in particolare sua figlia di appena 6 anni. Sono state minacciate di morte da un 27enne siciliano disoccupato, che si è scagliato contro Giorgia Meloni a fronte della manovra di Bilancio che punta a eliminare il reddito di cittadinanza (percepito dal violento) per gli occupabili. In poche ore, la polizia ha individuato l’uomo nella sua abitazione in provincia di Siracusa e ha proceduto alla perquisizione e al sequestro dei device elettronici, con conseguente accusa di violenza privata aggravata.

Non meno gravi gli attacchi che subisce ogni giorno la senatrice a vita Liliana Segre, che nelle ultime ore ha depositato oltre 10 denunce per attacchi e insulti provenienti dal web, nel suo caso soprattutto di natura antisemita. Attacchi che si fanno sempre più violenti, con la paura che qualcuno possa passare dalle parole ai fatti, dai social alla realtà, con azioni irreversibili. “Liliana Segre ha denunciato chi l’ha insultata sui social. E ha fatto benissimo. Come ha fatto benissimo Giorgia Meloni a denunciare chi minacciava sua figlia. Sui social è giusto criticare, ma basta con insulti, minacce, offese. Punire chi diffama è una questione di civiltà”, ha scritto il senatore Renzi su Instagram.

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Il pacifista pétainista

La posizione pacifista nei confronti della guerra in Ucraina, dovuta a un’aggressione russa (cosa molto diversa dal rapporto Francia-Germania nel 1939), ricorda molto gli argomenti di Pétain.

Nessuno crede più che historia magistra vitae, dato che anche chi conosce bene la storia non ne trae affatto le conclusioni dovute e cade in errori già compiuti nel passato. Eppure credo che la storia della Francia nel 1940 – dopo la sconfitta da parte di Hitler – ci insegni qualcosa che ritroviamo oggi, in particolare nella guerra in Ucraina.

Dopo la disfatta del giugno 1940, il generale Philippe Pétain – che aveva allora 84 anni – rovesciò la formula di Clemenceau, pensò che la pace fosse una cosa troppo seria per essere lasciata ai politici. Pétain insomma – che pure aveva respinto le armate tedesche nel 1916 con l’inferno di Verdun – divenne un fiero pacifista, con argomentazioni non banali: siccome i Tedeschi avevano intenzione non di occupare tutta la Francia (interessava loro solo la parte Nord per fare la guerra alla Gran Bretagna) ma di lasciare un governo francese indipendente, occorreva approfittare di quest’occasione per evitare ai Francesi dolori e umiliazioni ancora maggiori. Non firmare la resa con i Tedeschi, non formare un governo, significava mettere tutta la Francia nelle mani dei nazisti, che avrebbero inflitto ai cittadini le vessazioni che di solito si infliggono ai popoli nemici. Pétain inoltre aveva rifiutato la proposta tedesca di dichiarare la guerra alla Gran Bretagna, così la Francia avrebbe goduto della pace pur nel mezzo della guerra ormai mondiale[1].

La visione opposta era quella di Charles de Gaulle, generale senza alcun esercito, una testa calda, un visionario, un irresponsabile che voleva continuare una guerra impossibile. Oggi si può pensare che le scelte di Pétain e di de Gaulle fossero complementari, e quindi, in fin dei conti, non incompatibili: Pétain assicurava ai Francesi l’indipendenza e il non partecipare più alla guerra, mentre de Gaulle assicurava la possibilità di poter vincere poi una guerra che nel 1940 era perduta. Eppure all’epoca le due proposte erano inconciliabili, uno dei due doveva finire condannato a morte per alto tradimento. Alla fine della guerra venne condannato a morte Pétain, anche se fu graziato perché aveva ormai 90 anni. Ma col senno di poi, non potremmo pensare che, dopo tutto, entrambi in qualche modo abbiano salvato la Francia o i Francesi?

Quel che rovina però questa tesi della complementarietà tra Pétain e de Gaulle è il fatto che la Francia pétainista non si limitò a essere neutrale nella guerra, di fatto collaborò attivamente col nazismo. La stessa Francia di Vichy – non Repubblica di Vichy, perché si voleva anti-repubblicana – era un regime semi-fascista, anti-democratico, ultra-conservatore, basato sulla trinità “lavoro, famiglia, patria”. Insomma, Pétain simpatizzava per un regime simile a quello nazista. Fu così che la polizia francese collaborò alla persecuzione degli ebrei, ovvero fu complice del massacro di una parte dei propri stessi cittadini. Agli inizi, il ragionamento pacifista pétainista poteva essere persuasivo, di fatto però il regime di Vichy mostrò l’affinità elettiva tra Pétain e Hitler. Questo punto è fondamentale: la politica non è solo quel che i politici dicono, è anche quello che non dicono ma che mostrano attraverso quel che fanno o anche solo quel che dicono. Ritroviamo qui una differenza essenziale che Wittgenstein aveva messo in rilievo in filosofia: quella tra dire e mostrare, che non coincidono.

Oggi diciamo che ha storicamente vinto de Gaulle. Diciotto anni dopo la costituzione di Vichy, de Gaulle a sua volta creò una nuova costituzione, la Quinta Repubblica francese, che continua ancor oggi e che si è dimostrata, tutto sommato, solidamente democratica. Nemmeno gli anti-gaullisti la criticano. Ma pochi dicono che Pétain invece è finito nella pattumiera della Storia perché voleva la pace… quando non la si doveva volere. Ma quando si deve volere la pace, e quando no?

Oggi la posizione pacifista nei confronti della guerra in Ucraina, dovuta a un’aggressione russa (cosa molto diversa dal rapporto Francia-Germania nel 1939: allora fu la Francia a dichiarare guerra alla Germania, non viceversa), ricorda molto gli argomenti di Pétain. Questi all’epoca convinsero molti, anche non filo-fascisti né ultra-conservatori. I pacifisti di oggi dicono che la Russia, malgrado le sue disfatte militari, è riuscita a conquistare la parte orientale dell’Ucraina e che non sarà affatto facile sloggiarla, anche perché molti nel Donbass sono filo-russi. La guerra rischia di protrarsi a lungo, anche anni, infliggendo grandi sofferenze soprattutto alle popolazioni ucraine delle zone investite dalla guerra. Anche se resa militarmente potente dalle armi occidentali, l’Ucraina dovrebbe saggiamente accettare il dato di fatto, l’annessione alla Russia di certe proprie aree, prima di tutto della Crimea. L’argomento forte, l’asso nella manica, dell’argomento pacifista è sempre lo stesso: risparmiare lutti e sofferenze alla popolazione. Particolarmente ai bambini, aggiungono quasi sempre, per rendere la loro argomentazione più patetica e convincente. “Non siamo affatto filo-putinisti” dicono costoro, “vogliamo solo il bene della popolazione ucraina, che non vuole la guerra”. Si dà per scontato infatti che la gente comune non voglia affatto la guerra. Fosse il cielo se fosse sempre così!

Il pregiudizio consolatorio secondo cui i popoli sono sempre contrari alle guerre, anche se scatenate dal proprio paese, si dimostra molto spesso del tutto falso. Così, sondaggi compiuti da agenzie indipendenti dal regime putiniano (come Levada Center) hanno rilevato come una stragrande maggioranza dei russi appoggiavano e appoggiano la guerra contro l’Ucraina[2]. D’altra parte, sondaggi non meno indipendenti mostrano che, nell’ottobre 2022, la maggior parte degli ucraini (70%) sono per continuare la guerra fino alla vittoria, e per “vittoria” il 91% intende la cacciata dei russi non solo dai territori invasi a partire dal febbraio 2022, ma anche la Crimea[3]. Di fatto, la maggioranza di entrambi i popoli, il russo e l’ucraino, appoggiano i loro rispettivi governi: sono per fare o continuare la guerra.

Spesso un intero popolo può divenire aggressivo, guerrafondaio, spietato. Spesso un intero popolo può resistere eroicamente a un’invasione.

Ma chi sono i pacifisti occidentali? Sono in primis leader della destra, come Salvini e Berlusconi in Italia, che per anni hanno avuto ottime relazioni con Putin o con il suo establishment. Ben prima di questa guerra, infatti, essi simpatizzavano nel fondo per l’autarchia putiniana, che in gran parte riprende la trinità pétainista “lavoro famiglia patria” a cui aggiunge anche Dio, purché sia quello cristiano, soprattutto ortodosso o cattolico. Anche qui occorre distinguere quel che questi leader dicono (argomenti pacifisti) e quel che invece mostrano. Ovvero, essi mostrano, come già Pétain con Hitler, la loro affinità elettiva con la visione putiniana. E’ il non-detto che rende comprensibile il detto.

Poi ci sono i pacifisti di sinistra, i quali non dovrebbero avere alcuna simpatia per la visione putiniana. Nella sinistra radicale includo anche il Movimento 5 stelle, anche se rifiuta l’etichetta “sinistra”. I loro argomenti razionali sono identici a quelli dei pacifisti di destra: gli ucraini devono rassegnarsi a perdere parte del loro territorio per risparmiare sofferenze ai loro cittadini. Erano gli stessi però che non criticavano il Vietnam del Nord e il Vietcong (l’esercito rivoluzionario vietnamita del Sud) per provocare sofferenze inaudite alla popolazione vietnamita attaccando l’esercito sud-vietnamita e quello americano negli anni 1960 e 1970. E sono gli stessi che non criticano Hamas nella Striscia di Gaza quando spara razzi in territorio israeliano esponendo quindi la propria popolazione a ritorsioni da parte israeliana (a furia di pungere il gigante con gli spilli, questo dovrà pur reagire con qualche schiaffone, prima o poi). Anche qui, una cosa è quel che dicono, altra cosa è quel che non dicono ma che di fatto regola il loro discorso: il dover essere comunque contro l’Occidente, da intendere qui in senso lato, come i paesi liberal-democratici a industrializzazione avanzata[4]. Siccome Zelenskij è alleato strettamente all’Occidente, istintivamente la simpatia va a Putin. Anche se questi pacifisti di sinistra non se ne rendono sempre conto, essi fanno il gioco di Putin: gli Ucraini si devono arrendere alle pretese russe, ovviamente per il proprio stesso bene.

C’è una sorta di riflesso condizionato di parte della sinistra non contro il capitalismo – perché la Russia è non meno capitalista, anzi, è il capitalismo nella sua forma più selvaggia e cleptocratica – ma contro l’Occidente di cui essa è parte. E dell’Occidente in particolare odia gli Stati Uniti, la massima potenza. La bussola di una certa sinistra è questa: qualunque cosa venga politicamente dall’Occidente è male e va osteggiato. Chiunque si opponga all’Occidente gode di una sua viscerale simpatia.

Ovviamente questo assunto fondamentale non viene mai detto, anche perché così detto rivelerebbe tutta la propria irrazionalità. Si dice invece che la guerra in Ucraina è “una guerra per procura”. Gli Stati Uniti farebbero la guerra alla Russia con il sangue degli Ucraini. Così come si potrebbe dire che la lunga guerra del Vietnam fu una guerra per procura dell’URSS contro gli USA usando il sangue dei vietnamiti (l’URSS avrebbe svolto allora lo stesso ruolo che gli Americani svolgono oggi in Ucraina, così come oggi i Russi svolgono il ruolo allora svolto dagli Americani). In questa ottica gli americani appaiono più vili e cinici dei Russi, che almeno si battono con il loro proprio sangue.

Ma il punto è: perché gli Americani dovrebbero voler fare guerra alla Russia? In che modo la Russia oggi può dar fastidio direttamente a US ed UK (i paesi più impegnati in questo conflitto) fino al punto da doverci fare la guerra usando gli Ucraini come carne da cannone? Certo è molto fastidioso il grande arsenale nucleare di cui dispone la Russia. Il suo esercito convenzionale invece ha dimostrato con la guerra in Ucraina tutte le sue pecche e fragilità. L’economia della Russia è grande più o meno come quella spagnola, non produce nulla che possa sfidare l’Occidente nei settori di punta che oggi contano, come l’informatica, l’elettronica, l’innovazione automobilistica, i media, le energie alternative. L’unica forza della Russia sono il petrolio e il gas, che però US e UK non comprano perché sono altrimenti autosufficienti. Un’altra forza russa è il grano, che l’Occidente è in grado di produrre altrove. A differenza di quelli cinesi, i prodotti russi non si espandono affatto nel mondo. Insomma, la Russia è una potenza di serie B, un semplice gigante nucleare nudo in un deserto economico, non così pericolosa da dover essere attaccata militarmente. Notiamo inoltre che all’inizio l’America non credeva affatto nella capacità degli Ucraini di resistere all’invasione russa, perciò subito dopo il 24 febbraio l’America propose a Zelenskij di rifugiarsi in Occidente, dando la partita per persa. Proposta che, come tutti sanno, Zelenskij rifiutò. E’ solo dopo che gli Ucraini si dimostrarono in grado di resistere abbastanza bene all’attacco russo che Biden cambiò idea e investì massicciamente in aiuti per l’Ucraina. Come secondo il proverbio “aiutati, che Dio (l’America) ti aiuta”.

Nessuna ragione economica né geopolitica spiega insomma il deciso schierarsi dell’Occidente a fianco dell’Ucraina. La ragione è solo di tipo etico o ideologico che dir si voglia, direi anche di tipo filosofico: l’Ucraina è un paese che ha scelto la strada di una democrazia liberale, mentre la Russia ha preso la strada della democrazia illiberale. Tutto qui. Lo so che questo apparirà scandaloso a tutti quelli, di sinistra e di destra, i quali pensano che la ragione ultima, il movente fondamentale, di tutti gli atti politici sia l’economia, oppure la Realpolitik intesa come politica di pura potenza. L’economia certo è un fattore importantissimo, ma non basta per decifrare le scelte spesso del tutto anti-economiche, e dissennate, degli esseri umani. In effetti, oggi tendiamo a pensare che tutto ciò che è anti-economico è dissennato. Alla base c’è essenzialmente una divergenza etico-filosofica: liberalismo contro illiberalismo.

Quindi, coloro che in Occidente hanno avuto o hanno simpatia per Putin – da Trump a Salvini, da Marine Le Pen a Berlusconi – mostrano così qualcosa di profondo di quel che pensano e di quel che sono: la loro fondamentale ostilità al liberalismo, inteso non come lo intende una certa pubblicistica – come le teorie ultra-liberali del free market – ma come cultura dei diritti universali, delle libertà civili, della tolleranza delle diversità e del pluralismo. Così come Pétain, articolando un discorso pacifista all’epoca del tutto convincente e razionale, esprimeva in questo modo, nel fondo, la sua profonda affinità con le idealità nazi-fasciste.

[1] Ciò non ha impedito alla Francia, con 567.000 morti tra militari e civili, di avere nel corso della guerra più morti dell’Italia, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.

[2] Ad aprile 2022 appoggiava la Guerra l’83% dei Russi. Cfr. R. Dixon, “Russians back war in Ukraine, but report finds notable opposition”, The Washington Posthttps://www.washingtonpost.com/world/2022/09/07/russia-war-ukraine-public-opinion/.

[3] N. Liu, “Poll Shows Ukrainians Resolved to Fight Until Victory”, October 19, 2022,  https://www.voanews.com/a/poll-shows-ukrainians-resolved-to-fight-until-victory/6796951.html.

[4] Di fatto, oggi è questa la nozione di Occidente, che ha perso ogni riferimento geografico. Per Occidente intendiamo i paesi altamente industrializzati con regimi liberal-democratici, tra i quali Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Israele, Australia, Nuova Zelanda.

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Dalla “policrisi” alla crescita

La costruzione di un nuovo paradigma dipende dall’evoluzione e dal condizionamento reciproco dei tre shock(geopolitico, energetico ed economico-finanziario), che pervadono il contesto attuale. Il ruolo dell’Europa.

Il passaggio a un nuovo paradigma di sviluppo non è mai semplice. Il riassetto di un’economia e di una società passa sempre per una scomposizione degli equilibri precedenti, che necessitano di un sovvertimento e di una capacità creativa inusitata, prima di trovare una diversa sistemazione. Il tempo in cui viviamo è il frutto di una lunga età di turbolenze e transizioni, che non ha ancora iniziato la sua fase di assestamento. Il panorama dell’ultimo mezzo secolo è stato costellato dai colpi di crisi ripetute, a partire dall’emergenza dell’innalzamento dei prezzi petroliferi e della stagflazione degli anni Settanta del secolo scorso, fino al crollo economico e finanziario del 2007-2014. Dopo di allora, il mondo ha dovuto affrontare pandemia, guerra e crisi energetica, ma anche avversità climatiche e ambientali, in un susseguirsi di forti scosse, brevi riprese e pesanti ricadute. Questa sequenza ha consegnato alla storia e all’attualità una realtà segnata da “policrisi”, ovvero da un insieme di notevoli perturbazioni che è più grande della somma delle sue parti. Il termine è stato coniato da Edgar Morin e Anne Brigitte Kern nel 1999 per descrivere “crisi intrecciate e sovrapposte”, che non rappresentavano più una singola minaccia, ma la “complessa interconnessione di problemi, antagonismi, crisi, processi incontrollati con la crisi generale del pianeta”. Lo storico Adam Tooze, in un articolo di poche settimane fa dal titolo rivelatore (Welcome to the world of the polycrisis), ha rilanciato questa espressione, rimarcando la differenza sostanziale con i periodi passati di una crisi che richiede soluzioni sempre più complesse: “Immaginare che i nostri problemi futuri saranno quelli di cinquant’anni fa significa non capire la velocità e le proporzioni della trasformazione storica”. Nello scenario odierno, vi sono molteplici fonti di incertezza, che complicano le prospettive economiche: la questione energetica europea, intimamente connessa con l’andamento della transizione ambientale e la realizzazione degli interventi per la ripresa; l’evoluzione dell’inflazione e il rapido incremento dei tassi di interesse; la sfida monetaria globale e la tenuta dell’euro; la trasformazione o il decadimento del sistema industriale; la mancanza di una visione strategica per l’elaborazione di un nuovo modello di sviluppo. Questi motivi di crisi si intrecciano con un conflitto costantemente in bilico tra minacce di escalation e possibilità di tregua e con gli imprevedibili sbocchi degli assetti geopolitici. Sul versante di un cupo pessimismo si colloca un economista come Nouriel Roubini, che, al cospetto di pressioni stagflazionistiche capaci di comprimere un debito pubblico e privato di enormi dimensioni (salito dal 200% del Pil nel 1999 al 350% nel 2021), preconizza un “inevitabile schianto”. Anche perché una tale massa finanziaria, invece di stimolare gli investimenti in nuovo capitale, si riversa nella spesa per consumi e, spesso, in “elefanti bianchi” (ovvero, progetti infrastrutturali inutili). Per i Paesi fragili e con un indebitamento eccessivo, quale l’Italia, il rischio è plurimo: costi di finanziamento in forte aumento, redditi e ricavi in calo e valori patrimoniali decurtati. In questi giorni, il Financial Times e l’Economist hanno riportato ampie previsioni economiche per il prossimo anno. Il primo sottolinea la condivisione generale di un quadro nel quale la crescita del Pil globale continuerà a rallentare e l’inflazione, pur toccando il suo picco, si manterrà “vischiosa”: per gli investitori, ma anche per le azioni di politica economica da porre in atto, si tratterà di comprendere la portata dell’interazione tra questi due fenomeni a livello dei singoli territori. L’Economist osserva che l’economia mondiale sta decelerando e molti Paesi corrono il pericolo di una crisi profonda. Tuttavia, le attese per il 2023 appaiono controverse. Da un lato, nel primo semestre, si prevede qualche miglioramento sia dell’inflazione che delle disponibilità energetiche, dall’altro, limitandosi all’Europa, le ingenti somme spese per proteggere l’economia dai costi elevati dell’energia e il pieno impatto degli aumenti dei prezzi potrebbero portare a una recessione, nel corso dell’anno, seguita da una ripresa molto lenta. Inoltre, “il prossimo scontro tra inasprimento monetario e sostenibilità fiscale” avrebbe come teatro il nostro Paese e, se la BCE dovesse rialzare i tassi, il bilancio italiano sarebbe sottoposto a un consistente stress. Secondo i redattori del Collins English Dictionary, la parola dell’anno per il 2022 è “permacrisi”, intesa come “un lungo periodo di instabilità e insicurezza”, che richiama l’idea di un’epoca di crisi non ancora conclusa. La costruzione di un nuovo paradigma dipende, dunque, dall’evoluzione e dal condizionamento reciproco dei tre shock (geopolitico, energetico ed economico-finanziario), che pervadono il contesto attuale. Il compianto David Sassoli scriveva, ricordando proprio Edgar Morin nel centenario della nascita, che “l’Europa può svolgere un ruolo da protagonista e indicare nuovi modelli capaci di conciliare crescita economica e sostenibilità”. Senza questa rinnovata ingegnosità e forza di innovazione, accompagnata da un eccezionale impegno per il rilancio dell’unità europea, sarà molto difficile uscire da questa fase di “policrisi”, provando a completare una transizione intricata e piena di incognite.

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Il Ministro garantista

In Commissione Giustizia al Senato il Ministro Nordio ha fatto un lungo ragionamento analizzando tutti i nodi irrisolti della giustizia italiana e indicando le linee programmatiche di riforma che intende perseguire. Musica per le orecchie dei garantisti e dei liberali.

Dopo gli anni bui del giustizialista pentastellato Bonafede e la parentesi felice della Ministra Cartabia, purtroppo interrotta prematuramente con la caduta del governo Draghi, i garantisti di destra e di sinistra avevano salutato con entusiasmo l’arrivo in via Arenula di Carlo Nordio, ex magistrato di cui era ben nota la cultura liberale e garantista. Ma poi, nelle prime settimane dall’insediamento del governo Meloni, l’entusiasmo era andato via via scemando: perché Nordio non diceva e non faceva niente per venire incontro alle speranze di quanti volevano sentirlo parlare di riforma della giustizia.

Non si era espresso nemmeno quando il suo collega dell’Interno Piantedosi aveva scritto un decreto per impedire i rave-party in cui neppure si nominava e si chiariva la fattispecie di reato, e si ipotizzavano pene fino a sei anni di reclusione degne del Cile dei tempi di Pinochet. Un vero e proprio obbrobrio giuridico che, per fortuna, poi è stato emendato in Parlamento.

La delusione di tutti quelli che avevano gioito alla nomina del guardasigilli Nordio era diventata palpabile, anche perché nessuno se ne faceva una ragione.

Fino a quando Nordio, di punto in bianco, è tornato ad essere sé stesso. E allora ha assicurato a Matteo Renzi una indagine degli ispettori del Ministero sull’attività inquirente dei Pm fiorentini intorno alle finalità e ai fondi della fondazione renziana Open; attività inquirente che, ricordiamolo,  ha portato alla pubblicazione su organi di stampa dei conti correnti del senatore e persino all’arresto dei suoi genitori sulla base di accuse poi smontate nei processi.

Ma soprattutto il Ministro, che è da poco stato audito in Commissione Giustizia del Senato, ha fatto un lungo ragionamento analizzando tutti i nodi irrisolti della giustizia italiana e indicando le linee programmatiche di riforma che intende perseguire.

Musica per le orecchie dei garantisti e dei liberali: si parte con l’esigenza di una “profonda revisione” della disciplina delle intercettazioni che sono diventate “strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”; per poi toccare l’altro punto cruciale che va modificato, l’obbligatorietà dell’azione penale, perché rappresenta “un intollerabile arbitrio” del Pm libero di indagare su chiunque senza rispondere a nessuno. Nordio ha ripreso anche il tema referendario della necessaria separazione delle carriere all’interno della magistratura e si è infine dilungato su quello che è sempre stato un suo cavallo di battaglia: la presunzione di innocenza che “continua ad essere vulnerata dall’uso strumentale delle intercettazioni telefoniche, da un’azione penale arbitraria e capricciosa, dalla custodia cautelare utilizzata come pressione investigativa, dall’informazione di garanzia che diventa una condanna mediatica”.

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Lavoro, miti e realtà

Aumentano diseguaglianza e povertà? Non è vero, ma al sindacato piace crederlo. In realtà crescono gli occupati e i dipendenti stabili.

“I dati diffusi oggi da Censis e ILO confermano le nostre preoccupazioni.

Nel Paese cresce la povertà assoluta e aumentano le disuguaglianze e le insicurezze”.

Così si può leggere oggi, 3 dicembre, sulla pagina Facebook della UIL Confederale. Peccato che sul report ISTAT su “la redistribuzione del reddito in Italia” del 23 Novembre si legga “Nel2022 si stima che l’insieme delle politiche sulle famiglie abbia ridotto la diseguaglianza (misurata dall’indice di Gini) da 30,4% a 29,6%, e il rischio di povertà dal 18,6% al 16,8%”.
Due rilevazioni così opposte sono troppo, anche per chi pensa che la statistica possa dire tutto e il contrario di tutto: in realtà questo è un pregio della cultura italiana, non della statistica in sé. Ma allora, a fronte delle parole chiarissime scritte da ISTAT, dov’è nel rapporto CENSIS l’affermazione opposta rilevata dalla UIL? Nel capitolo “Lavoro, Professionalità, Rappresentanze” si può leggere “Ma l’inflazione non solo colpisce i redditi fissi o comunque tendenzialmente stabili nel medio periodo, aumenta anche la forbice della disuguaglianza tra le diverse componenti sociali: le famiglie meno abbienti si confrontano con un incremento medio dei prezzi pari al 9,8%, mentre per le famiglie più agiate l’aumento è del 6,1%, quasi 4 punti percentuali in meno”. E’un po’ poco, a confronto col report ISTAT che esamina “tutti gli effetti dei principali interventi sui redditi familiari adottati nel 2022: (i) la riforma Irpef;(ii) l’assegno unico e universale per i figli a carico; (iii) le indennità una tantum di 200 e 150 euro, i bonus per le bollette elettriche e del gas; (iv) l’anticipo della rivalutazione delle pensioni”.

Tradotto: i provvedimenti assunti dal Governo Draghi hanno ridotto povertà e diseguaglianze; l’inflazione in prospettiva potrebbe riaprirle, soprattutto se “Il 51% dei lavoratori dipendenti in Italia è attualmente in attesa del rinnovo contrattuale” come si legge nello stesso capitolo del Rapporto Censis.

“Gli indici statistici non mostrano né un aumento della diseguaglianza né una scomparsa della classe media. La sostanziale stabilità negli ultimi dieci anni – ha scritto Andrea Brandolini, vice capo del dipartimento economia e statistica della Banca centrale – nasconde importanti cambiamenti nelle posizioni relative di specifici gruppi socio-demografici. In un quadro di cronica debolezza della dinamica dei redditi, la ridefinizione delle posizioni relative di intere fasce sociali – in particolare, i lavoratori rispetto ai pensionati, i giovani rispetto agli anziani – può aiutare a spiegare il diffuso senso di impoverimento e indebolimento delle prospettive future, percepito dalle persone e riflesso nel dibattito pubblico”.

Il che dovrebbe ricordare ai Sindacati che la base della loro esistenza è contrattare il prezzo della forza lavoro in rapporto dialettico col capitale: se questa funzione non viene esercitata si verifica il paradosso per cui perde chi lavora (inflazione, immobilità dei salari, CIG, ecc.) ma non chi è pensionato, e quindi tutelato dalla spesa pubblica. E la risposta non può essere quella di mettere a carico dei contribuenti anche la difesa del potere d’acquisto dei salari, generalizzando decontribuzioni e detassazioni.

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