ITALIA 2011-2018, ABBIAMO VISSUTO REALMENTE IN AUSTERITY? – ITALIA IN CIFRE I

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Italia 2011-2018, fu vera Austerity? L’ardua sentenza non la daranno i posteri, ma noi ed è un secco no (dati alla mano). ‘

Cifre, quelle che meglio di tutte descrivono la realtà del paese, numeri che sono alla base della politica di un paese, delle sue iniziative e del suo reale potere. Le stesse che diventano, nelle mani dei demagoghi e di un pubblico inesperto, un’arma propagandistica capace di alterare le sorti di un paese. Per contrastare tale propaganda nasce “Italia in Cifre”, rubrica settimanale del Caffè e l’Opinione che intende portare alla vostra attenzione dati, studie e analisi riguardanti lo stato dei conti pubblici italiani.

Cominciamo dal tema più scottante, quello che è stato ed è, tuttora, la principale arma elettorale e propagandastica dei sovranisti (e non) del paese: l’Austerity. Dal vocabolario Treccani: “nel linguaggio economico, termine originariamente riferito al regime di rigida economia imposto dal governo laburista in Gran Bretagna, nel secondo dopoguerra, ed esteso poi a indicare qualsiasi politica di restrizione dei consumi ed eliminazione degli sprechi, attuata in periodi di crisi per ottenere il risanamento economico da cui il termine misure di austerity”.

L’Italia ha conosciuto tale “austerity” in due periodi della propria storia recente: le crisi petrolifera dl 73-74 e quella legata iniziata nel dicembre 2011 legata alla Legge di Bilancio 2012 di Monti e… finita nel 2012. Sono i 12 mesi del “Decreto Salva-Italia” quello composto dalla riforma Fornero, dall’introduzione dell’Imu e i perniciosi tagli lineari del 2.4% del PIL. Un decreto emergenziale, in alcuni punti fatto con troppa supponenza – si può onestamente, e giustamente, obiettare sui tagli lineari – passato in Parlamento per mano di parte di quegli stessi partiti che avevano portato spesa pubblica e debito fuori controllo col Berlusconi IV.

L’AUSTERITY E LA REALTÀ

GRAFICO I – FONTE: FIDENTIIS EQUITIES, DATI MINISTERO ECONOMIA E FINANZE

Nonostante il termine venga usato in riferimento ad ogni politica di controllo dei conti pubblici, l’Austerity propriamente dettta riguarda, appunto, o la riduzione dei consumi forzosa come nel 73-74, o il taglio della spesa pubblica del Governo Monti. Per definirci in Austerity anche dopo il 2012- come fa, per esempio, il programma elettorale del M5S e della Lega nel 2018, il MoVimento ancora per le europee 2019 così come “La Sinistra” – dovremmo vedere a) o un progressivo taglio della suddetta spesa o b) un contenimento della stessa negli anni successivi.

Il grafico I (Fidentiis Equities, dati MEF) testimonia che dal 2013 al 2019 nessuno Documento Economico Finanziario (DEF) presentato dai Governi italiani (Letta, Renzi, Gentiloni e Conte) è stato dettato dall’Austerity. Anzi, al netto degli interessi abbiamo avuto solo manovre neutrali o espansive. La dimostrazione si trova nei dati pubblicati dall’ISTAT (grafico II) stando ai quali il rappporto deficit-PIL o deficit nominale delle Leggi di Bilancio 2013-2018 è sempre stato ai limiti del Trattato di Maastricht, in espansione nel triennio 2012-2014 per poi ridursi – di poco – nel triennio successivo (2015-2018) rimanendo, però “espansivo”.

Espansione che è propria di tutto il decennio 2008-2018, in cui la spesa pubblica è aumentata del 20,5% nonostante i tagli del Governo Monti, localizzati soprattutto in settori quali politiche per i giovani, turismo e agricoltura. L’andamento della spesa pubblica sarà il tema della seconda parte di Cifre, prevista per lunedì prossimo). Nello specifico nel 2018 i livelli della spesa pubblica sul PIL sono tornati a quelli pre-Salva Italia, la differenza che il PIL non è ancora tornato a quei livelli e questo genere un saldo nel rapporto Debito-PIL maggiore (dal 102,4% del 2008 al  131.4% del 2017.

IL DEFICIT-PIL NON AUSTERO

GRAFICO II – FONTE: ISTAT. ELABORAZIONE: SIMONE BONZANO

Il grafico II è interessante anche per altri motivi: a) il rapporto deficit-PIL del 2012 in pieno Salva-Italia e b) l’aumento più marcato dell’aumento della spesa pubblica nel 2019-2022 ((+8 mld 2019, +21 mld 2020, + 25 mld nel 2021) a fronte di rapporti deficit-PIL (nominali) inferiori a quelli del – per esempio – 2012-2014. La spiegazione è molto semplice ed è connessa alla differenza fra spese in conto capitale, ovvero gli investimenti, e la spesa corrente, ovvero quella per gli stipendi del personale della P.A., beni e servizi, spesa pensionistica e altre prestazioni sociali, interessi passivi, etc.

In dottrina economica, le spese in conto capitale sono lo strumento tramite cui uno Stato – o un’azienda – investe per fini produttivistici, ovvero per indirizzare – per i liberisti – o guidare – per i socialisti – lo sviluppo economico del paese. Esempio di spese conto capitale sono quelle per le infrastrutture pubbliche, finanziamenti a imprese che investono in zone depresse (riconversione economica) o qualsiaasi spesa sostenuta con l’intento di trarne un beneficio futuro, che s’identifica quindi con il costo di acquisizione di un capitale fisso. In genera si tratta di investimenti una tantum che non vanno ad influire in maniera permanente sull’indebitamento pubblico, al contrario della spesa corrente.

L’aumento di quest’ultimo genera il deficit strutturale, il quale si differenzia da quello nominale perché, appunto, non considera la congiuntura economica e non calcola le spese in conto capitale. Questo e non il deficit nominale è il parametro principale del Fiscal Compact e sempre da quello è nata la bocciatura della prima “Manovra del Popolo” da parte della Commissione Europea: non importava il 2.4% poi diventato 2%, ma l’aumento del deficit strutturale. Lo stesso “numerino” è quello per cui Francia, Spagna e Portogallo hanno potuto fare manovre a deficit nominale più alto del nostro: si trattava di investimenti in conto capitale, la nostra – Quota 100 e Reddito di Cittadinanza – è spesa corrente.

Per capire meglio questa dinamica occore analizzare i saldi primari del paese effettivi – il fantomatico avanzo primario che la propaganda sovranista usa a spron battuto per sottolineare l’ingenerosità dei trattati europei –  e quelli necessari per mantenere il rapporto debito/PIL invariato.

L’AVANZO PRIMARIO SPIEGATO BENE

GRAFICO III – FONTE: ITALIA DATI ALLA MANO, ELABORAZIONI SU DATI AMECO E BANCA D’ITALIA. DA AMECO DERIVAN LE SERIE PER I DEFLATORE DEL PIL (SERIE PVGD), PIL A PREZZI COSTANTI (SERIE OVGD), INTERESSI SUL DEBITO (SERIE AYIGD) E DEBITO (SERIE UDGG).

Se cerchiamo un’altra indicazione di come l’Austerity, in Italia, sia stata più uno spauracchio che una realtà, non bisogna andareCon il termine avanzo o saldo primario ci si riferisce alla differenza fra spesa pubblica ed entrate al netto del costo del debito pubblico: esso, quindi, misura la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato. Il grafico III (fonte Italia dati alla Mano) conferma che dal 1992 al 2017, l’Italia è stato in avanzo primario sempre (tranne nell’anno 2009, non a caso due anni dopo cadde il Governo Berlusconi). Dal 1995 al 2007 (eccezion fatta per il 2005, governo Berlusconi III) tale avanzo primario, ben più corposo di ora, è servito a ridurre o contenere l’aumento del debito italiano (100.1% nel 2004 Governo Berlusconi II, 99.8 nel 2007, Governo Prodi II).

L’esplosione del debito durante la crisi è palese nel quiequennio 2008-2013 quando, per colpa da una parte della crisi, dall’altra della pessima gestione della macchina pubblica, l’avanzo primario si contrae e il livello necessario per contenere il debito si alza. La dinamica si inclina con il Governo Berlusconi IV, esplodendo nel biennio 2011/2012 sotto il governo Monti. Colpa di Monti? Non proprio. Lo studio dell’Osservatorio CPI di Carlo Cottarelli, fa notare che senza il Salva Italia la il debito sarebbe cresciuto fra il 142% e il 145% oggi a fronte, inoltre, di una stagnazione del PIL che predata il 2011 (-4% prima del Salva-Italia).

La dinamica del debito torna sotto controllo prima con il Governo Letta (2013-2014, debito da 129 a 131.8 con progressiva riduzione del livello di avanzo primario necessario a contenere il debito), per poi tornare stabilizzarsi con i governi Renzi Gentiloni.

Fu vera Austerity quindi?

Non proprio. Come dimostra il confronto fra grafico II e III, l’Italia, passata l’emergenza del Salva Italia ha abbandonato l’Austerity scegliendo di contenere la spesa e praticare manovre espansive in spesa conto capitale. Il problema sociale sono stati gli strascichi della crisi del 2009-2011, che si sono riverberati per anni, da una crisi si esce prima degli effettivi vantaggi su occupazione e redditi, e l’impossibilità/incapacità del Governo Monti di far altro che impedire il tracollo.

Perché allora prendersela con un qualocosa che non c’è stato, se non per un breve periodo?

La risposta è politica. Come dimostra una certa retorica trasversale che va dal Governo a parte delle opposizioni (compresa parte del PD) ad essere contestato non sono le politiche di riduzione del debito (anche perché toccherebbe trovarle), ma il limite del Fiscal Compact di alzare l’indebitamento nominale e strutturale. Si tratta di due filosifie simili. Da una parte l’idea neokeynesiana che l’economia vada sempre sospinta con investimenti in conto capitale in quanto perennamente in crisi (J.M. Keynes, invece, parlava di piccoli interventi in cicli di crisi), dall’altra la visione sovranista/monetarista per cui lo stato deve sovvenzionare (sempre in debito) tutto allo scopo di creare consumi e lavoro.

Per farlo occorre rompere il Fiscal Compact (limite al deficit strutturale) e Maastricht (dinamica del debito in flessione), modificare lo statuto della BCE o uscire dall’Euro: con diverse sistemazioni semantiche è quanto proposto nei programmi di Lega, M5S e “Sinistra” (il PD propone la versione moderata: via l’austerity e BCE prestatore di ultima istanza).

ITALIA 2011-2018, ABBIAMO VISSUTO REALMENTE IN AUSTERITY? – ITALIA IN CIFRE Iultima modifica: 2019-05-21T12:03:24+02:00da bezzifer
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