La solitudine di Renzi rinnegato dai fedelissimi
Dopo le Primarie del Pd, il 5 marzo l’ex premier era a Milano per assistere al monologo-orazione pro Europa di Bernard-Henri Levy. Il manifesto per una sua ripartenza?
Matteo Renzi, inaspettatamente, era a Milano la sera del 5 marzo per presenziare al debutto del monologo-orazione di Bernard-Henri Levy sull’Europa. Teatro Franco Parenti gremito da moltissime facce note dell’intellighenzia meneghina (ecco d’un sol colpo una plastica rappresentazione delle tanto vituperate èlites), in prima fila tutti europeisti di provata fede comeGiovanni Bazoli e Mario Monti. E Giuseppe Sala, cui è toccato l’onore del palco e l’ovazione del pubblico, lui forte della manifestazione anti-razzista di Milano che ha di fatto sancito le aspirazioni del sindaco milanese a una futura leadership nazionale. Di sovranisti, ovviamente, manco l’ombra (deluso chi pensava a qualche infiltrato che potesse movimentare la serata) se non nella performance di Levy, in cui i cinque stelle e Luigi Di Maio sono relegati al ruolo di utili idioti mentre il nemico vero, il pericolo numero uno, l’uomo nero, è Matteo Salvini. Ma a noi interessava l’altro Matteo, solitario all’estremità della prima fila, citato un paio di volte da Levy come emblema di resistenza ai nuovi barbari, a cui la platea ha riservato un tiepido applauso di circostanza.
Guardando Renzi mentre stringeva qualche mano, si intuiva che dietro la sicumera con cui continua imperterrito a dare mostra di sé, complice la presentazione di un libro che girando l’Italia gli riserva ancora il plauso e il calore dei suoi tifosi, l’uomo sta vivendo un evidente dramma personale, umano e politico. Da una parte c’è l’arresto dei suoi genitori, che immaginiamo quanto possa essere destabilizzante su affetti e legami familiari. Dall’altra il suo isolamento nel partito, dopo che la plebiscitaria vittoria alle Primarie di Nicola Zingaretti ne ha di fatto avviato la derenzianizzazione. Con tanto di triste e miserrimo spettacolo di ex fedelissimi che si affrettano a salire sul carro del vincitore, rinnegando quella che in loro fino a ieri appariva come una incollabile fedeltà all’ex segretario.Tutti a dire che Renzi oramai non lo vedono e non lo sentono da un pezzo (l’ultimo in ordine di tempo è stato Graziano Delrio), e che in fondo ne avevano sempre mal sopportato i modi e quell’indole divisiva che ha finito col trasformare il Pd in una partita del tutti contro tutti. Niente di nuovo in un Paese dove trionfa l’opportunismo e la gratitudine, come diceva Giulio Andreotti, è il sentimento della vigilia. Ma è drammatico come nel Pd ci sia questa attitudine a voltare pagina come se niente fosse. E così come Renzi pervicacemente rifiuta di fare i conti con i suoi errori, allo stesso modo la nuova dirigenza del partito sembra volersi sbarazzare senza colpo ferire di una stagione che l’ha vista convintamente partecipe sotto le insegne del rottamatore.