E se la Germania – gradualmente e con tempi lunghi – lasciasse la Ue? Intanto avvia un riallineamento con gli Usa

DICERIE DI UN UNTORE: A dire il vero, allo stato dei continui dispetti in seno alla Comunità europea, è più di un’ipotesi che tra qualche tempo la Germania getterà la spugna ed uscirà dalla Ue. Lo farà non per ripicca, ma semplicemente per la fottuta paura di restare schiacciata dal peso dell’inflazione galoppante che già ha in tutto il suo territorio, ed anche perché, ormai, si è resa conto che in seno alla Comunità di paesi amici se ne contano sempre meno. Certo, adesso il suddetto ragionamento potrebbe sembrare campato in aria, ma guardando bene con insistenza tra le pieghe delle cronache europee quotidiane si può scoprire molto di più di una ipotesi politica, incominciando dalla sentenza della corte costituzionale tedesca contro la Bce. (G.F.)

La notizia è passata sotto silenzio. Quantomeno, a livello mainstream. D’altronde, lo scorso 8 maggio il dibattito europeo era monopolizzato da altro. In primis, l’Eurogruppo chiamato a trovare la quadra sugli strumenti comuni da mettere in campo per la risposta economica alla pandemia. Secondo, i ricaschi polemici alla controversa sentenza della Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe, solo apparentemente “locale”, stante l’alto profilo dei soggetti sentitisi in obbligo di prendere una posizione di chiarimento e rassicurazione generale al riguardo. Bce in testa.

Ma la notizia c’era. E riguardava proprio l’Eurotower, la quale avrebbe dato mandato ai suoi tecnici di studiare un procedimento di acquisto di bond spazzatura, come riportava la Reuters. E attenzione, non accettazione come collaterale all’atto del rifinanziamento. Bensì, acquisti diretti. Di fatto, ciò che la Fed ha solo annunciato dopo il downgrade di Ford ma non ancora compiuto all’atto pratico.

 

Per una volta, Francoforte supererebbe Washington in fatto di magnitudo del Qe. Qualcuno, più sospettoso della media, ha immediatamente legato la notizia proprio alla sentenza di Karlsruhe sulla liceità dei programmi di stimolo, vedendo in questa ennesima ed estrema deviazione dai criteri statutari il vero pericolo che la Germania intende disinnescare sul nascere. Insomma, lo spread italiano artificialmente compresso non sarebbe il pomo della discordia. Anche perché, altrimenti, Karlsruhe avrebbe emesso il suo giudizio a marzo, come da calendario pre-Covid e potenzialmente minato sul nascere l’intero programma PEPP.

Timore reale quello di Berlino o ennesimo riflesso pavloviano del grande incubo teutonico, ovvero quella Weimar che fa intravedere fantasmi di iper-inflazione in ogni dove? E dare una prima risposta, tutta finanziaria, ci pensa questo grafico, relativo al drastico peggioramento di rating che stanno patendo le obbligazioni che operano da sottostante alle tranche più sensibili e problematiche di uno strumento finanziario molto in voga, i Clo (Collateralized Loan Obligation)

Di fatto, un’obbligazione garantita da collaterale nella forma di crediti originati da prestiti. In sé, nulla di particolarmente esotico. Tanto che quel tipo di securities recitano la parte del leone sia nel portfolio degli hedge funds che dei fondi pensione. Il problema, come mostra appunto il grafico, è quando le componenti più a rischio impacchettate in quei prodotti vanno talmente sotto stress da alzare bandierine rosse: “I Clo  hanno subito downgrade a ritmi così frenetici da arrivare a minacciare le stesse salvaguardie che sono poste in essere per per assicurare la forza di resistenza finanziaria di quelle securities, sopraffacendole”, sentenziava Bloomberg. La quale, raccontando la dinamica, dava conto di quanto accaduto a metà aprile a un hedge fund statunitense, talmente disperato nel tentativo di sbarazzarsi di 100 milioni di dollari di controvalore di Clo europee da accettare di liquidarle a un quinto del loro valore facciale. Ovvero, già oggi, nel silenzio generale sul fenomeno, alcune tranche di quei prodotti viaggiano su prezzature di 20 centesimi sul dollaro.

Il problema? Se il debito sottostante a quegli assets continua a patire downgrade, il loro valore potrebbe precipitare. A cascata. Così come i bilanci di chi li detiene. Forse qualche banca e fondo europeo, magari francese, ha ecceduto negli ultimi trimestri con certe scommesse molto remunerative? E forse, proprio per questo la Bce ha sentito l’urgenza di dare mandato ai propri tecnici di capire come intervenire sul comparto a rischio dei junk bonds, calcolando che la sola Moody’s ha annunciato di aver messo in revisione per un downgrade Clo statunitensi per 22 miliardi di dollari di controvalore, operando su 859 bonds facenti capo a 358 pacchetti?

Ma c’è dell’altro che fa pensare a un disagio più serio, grave e strutturale della Germania dietro alla sentenza così sibillina della Corte di Karlsruhe. Due dinamiche, strettamente legate l’una all’altra.

La prima fa capo a queste due tabelle, a loro volta contenuto in uno studio della Bank of Montreal e del suo analista, Daniel Krieter. Mostra, attraverso i trend di Pil e massa monetaria M1, l’impatto sempre meno efficace dei programmi di Qe sull’economia reale.

Di fatto, i programmi di stimolo servirebbero oramai soltanto come sostegno agli indici azionari. E, nel caso della Bce, come motore immobile alla compressione artificiale degli spread sovrani più a rischio.

Scrive Krieter: “Il Qe ha interagito con l’economia reale in una maniera sempre più rallentata, con l’evolversi e il susseguirsi dei vari cicli. Ad esempio, l’ultimo posto in essere dalla Fed ha visto aumentare la fornitura di massa monetaria M1 solo di 0,32 dollari contro gli 0,96 e 0,74 del Qe1 e Qe2. Di fatto, in questo modo  la politica espansionistica risulta sostanzialmente in un aumento dei prezzi degli assets. Dopo dieci anni di esperimento, stiamo avvicinandoci al momento in cui le mosse della Fed non avranno più alcun impatto sulle dinamiche di M1. A quel punto, saremo nella fase di game over“.

La Germania vuole anticipare quell’epilogo, alla luce del carattere oltretutto meramente “politico” della versione europea del Qe? Pare di sì. E questo porta con sé lo scoperchiamento implicito di un vaso di Pandora finora rimasto ben sigillato, almeno a livello ufficiale: l’ipotesi di Germanexit. O, quantomeno, di una rimodulazione dell’Unione che preservi alcune dinamiche da eccessive e rischiose mutualizzazioni, ovvero la collettivizzazione dei costi finali della versione continentale di quel game over vaticinato dalla Bank of Montreal.

Di qui, il nein perentorio e senza condizioni di Angela Merkel a ogni ipotesi di Eurobond e l’attacco sulla “sproporzionalità” degli interventi della Bce mosso dalla Corte di Karlsruhe.

Il processo, ovviamente, non sarebbe rapido. Né tantomeno passibile di realizzazione attraverso un evento one-off e traumatico come il referendum britannico sul Brexit, non fosse altro per il legame embrionale che unisce Berlino alla moneta unica.

Sicuramente, però, la Germania pare essersi persuasa del fatto che l’Ue, così com’è, sta in piedi soltanto attraverso la strutturalità di programmi che per loro natura dovrebbero invece far capo al principio di eccezionalità. In parole povere, l’Ue nella forma attuale resiste solo di Qe in Qe, ovvero attraverso processi di monetizzazione del debito che non portino a una catena di eventi di credito in stile greco e alla disintegrazione de facto di un sistema fiscalmente ed economicamente troppo eterogeneo per sopravvivere a eventi come la pandemia da Covid-19 e al suo fall-out, ad esempio.

Un primo step? Il ritorno in auge di un’Europa a due velocità. Di fatto, la pietra tombale su ogni idea di mutualizzazione del debito e unione fiscale. E il prodromo a qualcosa di più drastico, nel tempo.

A sostegno di questa ipotesi, arriva quindi la seconda dinamica emersa nel fine settimana. Ovvero, lo scoop di Der Spiegel, settimanale establishment del Paese ma anche capace di veicolarne la “pancia”, dal quale si evincerebbe come fonti dei servizi segreti tedeschi – notoriamente dépendance in terra europea del Dipartimento di Stato Usa e della Cia – avrebbero le prove di come la Cina abbia chiesto e ottenuto dall’Oms di ritardare l’annuncio del riconoscimento ufficiale della pandemia da Covid-19 lo scorso gennaio, di fatto generando una sottovalutazione della gravità e di negare la possibilità di contagio fra uomo e uomo, attraverso la formula dell’assenza di prove scientifiche.

A sostegno della pensantissima e gravissima accusa, una telefonata intercorsa lo scorso 21 gennaio fra Xi Jinping in persona  e il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Thebreyesus, nella quale sarebbe stata concordata la versione da fornire all’opinione pubblica mondiale. Vera o non vera che sia la notizia (alla luce dell’attesa dell’Oms fino all’11 marzo prima di dichiarare ufficialmente la pandemia), la questione fondamentale appare la fonte e il dato politico della notizia.

In piena campagna mediatica anti-cinese dell’amministrazione Trump, intervellata dal rinnovato teatrino sul commercio utilizzato come ulteriore sostegno flip-flop al sentiment di Wall Street, Berlino vede il suo media più noto e autorevole sposare in pieno la tesi della responsabilità cinese e della connivenza dell’Oms, istituzione cui Donald Trump ha minacciato il taglio dei fondi proprio per la gestione opaca della crisi e i rapporti troppo stretti con Pechino. Non solo: il tutto, senza scomodare il bio-lab di Wuhan ed eventuali tesi complottiste.

A detta di molti, dopo il flirt energetico con la Russia su Nord Stream 2 e quello proprio con la Cina sul 5G, Berlino avrebbe giocoforza rotto gli indugi rispetto alla balbettante politica estera europea e si sarebbe pesantemente ri-allineata alle posizione atlantiche degli Usa. Bisogno cautelativo e preventivo di un alleato con le spalle larghe in vista di un momento epocale, di un potenziale Big Bang?

E se la Germania – gradualmente e con tempi lunghi – lasciasse la Ue? Intanto avvia un riallineamento con gli Usaultima modifica: 2020-05-11T16:44:18+02:00da bezzifer
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