TUTTI VOGLIONO MICHELLE Lei nega di volersi candidare, ma è molto richiesta.

A novembre negli USA ci saranno le prime elezioni vice-presidenziali della storia di quel Paese.
 
In quel mese, a meno di non auspicabili sorprese, Trump dovrebbe uscire di scena più o meno a calci nel sedere, inseguito dalle maledizioni di buona parte della società americana, che in questi quattro anni è stata violentemente e continuamente sballottata e dalle imprevedibili ubbie presidenziali, fino alla ciliegina sulla torta (the cherry on the cake) costituita dell’emergenza coronavirus, gestita in una maniera molto poco degna delle tradizioni e delle presunzioni di tecnica e di civiltà della prima economia mondiale (nonché prima potenza militare, tecnologica e finanziaria).
Gli USA sono stati esposti ad una autentica figuraccia mondiale (shitty look) a causa dell’impreparazione, del pressappochismo, dell’umoralità di una classe dirigente che di dirigere non s’è dimostrata affatto capace. Qui da noi ne sappiamo qualcosa di simili classi dirigenti, ma l’Italia non sono gli USA …
E adesso si aggiungono le mai sopite tensioni razziali, fomentate da un razzismo strisciante che in certi settori della società americana continua ad allignare e che paradossalmente gli otto anni di un Presidente di colore non hanno smorzato ma acuito. Da molte parti si fa notare che un Presidente sui generis come Trump è nato dalla reazione di una certa America profonda (deep America) allo smacco costituito dall’elezione di Barack Obama.
 
Detto questo, a novembre si dovrebbero trarre le logiche conseguenze di tanto sfacelo e quindi la seconda candidatura trumpiana dovrebbe essere rigettata (tossed aside); io continuo comunque ad incrociare le dita, keep crossing my fingers).
Il “champion” antagonista è un onesto ed attempato signore (78 anni a novembre), simpatico ed inveterato gaffeur, esperto politico sulla breccia dall’inizio degli anni Settanta (c’era ancora Nixon, per intenderci …), buon curriculum, sempre al servizio del progressismo democratico. Joe Biden ha onestamente accompagnato la magnifica avventura del doppio mandato di Barack Obama, giovane e sfolgorante stella dell’America progressista e moderata, simbolo del (purtroppo mai del tutto) definitivo riscatto dei cittadini afroamericani, non sfigurando mai ed offrendo un’affidabile e competente spalla all’azione presidenziale. Quattro anni fa ha disciplinatamente seguito il mainstream che portava alla candidatura di Hillary Clinton, riuscendo a non essere travolto dalla inopinata disfatta dell’ex first lady, ex senatrice, ex Segretario di Stato.
 
Adesso tocca a lui: troppo rischioso sarebbe stato opporre ad un sempre imprevedibile Trump un politicamente inesperto e poco connotato Bloomberg o un personaggio abbastanza di rottura come il giovane Buttigieg, moderato, progressista, cattolico, gay dichiarato e sposato, per non parlare del “socialista” dichiarato Bernie Sanders (old Bernie).
Evidente che Obama si sia speso molto per arrivare a questa candidatura unitaria, che ricompatta il Partito Democratico e lo mette in condizioni di battere The Donald.
Altrettanto evidente che il nome di Biden sia spendibile per un mandato e basta, alla fine del quale un ottantaduenne non sarebbe in alcun modo riproponibile (too old to run again).
 
Ecco che la partita vera si sposta quindi sulla figura del Vicepresidente, che, oltre ad essere pronto ad ogni evenienza, con ogni probabilità diventerà il candidato naturale nel 2024, con una prospettiva potenziale di arrivare addirittura fino al 2032.
Per quanto possa sembrare strano di questi tempi coltivare pensieri a così lungo termine (siamo tutti condizionati dalla temperie del virus, che ci ha schiacciato sul presente-presente), bisogna essere coscienti che la scelta del vice nel 2020 può (ripeto, può) condizionare la politica USA fino al 2032.
 
È opinione corrente tra i progressisti USA che il vice di Biden debba essere donna, di colore e pure giovane (con un Presidente quasi ottantenne …) e la scelta in teoria sarebbe anche abbastanza ampia. In teoria, perché un nome su tutti spicca in modo direi prorompente (in tutti i sensi), ovvero Michelle Obama.
Michelle gode di una popolarità enorme, trasversale, globale. È stata l’ombra luminosa di Obama per otto anni, sempre al suo posto, mai una parola né un gesto fuori luogo, simbolo di una doppia riscossa, come donna e come donna di colore. Seria, competente, colta, è stata modello per una moltitudine di ragazze che in lei hanno visto la possibilità concreta e realizzata di non porre alcun limite alle proprie ambizioni di vita: diventare qualcuno …
Michelle ha incrementato a dismisura la popolarità con un’autobiografia, Becoming (Diventando), ora anche documentario su Netflix, che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, nella quale però dichiara esplicitamente di non mirare alla Casa Bianca. «Non sono mai stata una fan della politica – scrive – e la mia esperienza degli ultimi dieci anni ha modificato davvero poco la mia percezione: continuo a essere scoraggiata dalla sua cattiveria». Malgrado questo (e certamente non è poco), non si può non vedere come la candidatura di Michelle a vice di Biden sarebbe in grado di dare una svolta forse decisiva alla campagna e aprire quella prospettiva più che decennale di cui parlavo sopra (long term run).
 
Sogni? Illusioni? Fantapolitica? Chissà. Io credo che Obama, come ogni democratico responsabile, non possa non porsi il problema del vice in questi termini. Dopo aver pilotato con molta autorevolezza ed anche autorità la scelta del candidato, decidendo di promuovere il suo ex-vice Biden, non può non avere pianificato un ticket assortito in modo adeguato.
Che poi convinca la moglie, quella moglie certamente non docile, a buttarsi, senza lasciarsi scoraggiare, in un mondo cattivo, è tutto da vedere.
Ma la parola Becoming richiede, per forza di cose, un seguito … becoming what?
TUTTI VOGLIONO MICHELLE Lei nega di volersi candidare, ma è molto richiesta.ultima modifica: 2020-06-03T11:14:26+02:00da bezzifer
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