Chi votare contro questa sinistra e destra, perché bisogna cercare di votare bene almeno o meglio benissimo.…

Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "IL 25 SETTEMBRE VOTA L'ITALIA SUL SERIO. AZIONE IONE ITaLAvIva CALENDA renew europe."Mai mi era capitato di sentire tante amiche e tanti amici che hanno sempre votato, nella stragrande maggioranza dei casi, a sinistra – prima con grande convinzione, poi sempre più spesso turandosi il naso – e che continuano a considerare l’astensione un peccato mortale, chiedersi, con qualche angoscia su quale simbolo potrebbero mai depositare la loro croce. Anche volendolo, e non lo voglio, non avrei consigli da dare. Non fosse altro perché io stesso, che un voto avverso a questa destra comunque lo darò, provo sentimenti non troppo dissimili. Riflettiamoci su un attimo. Trent’anni fa ci fu un sommovimento (ricordate i fasti della “rivoluzione italiana”?) che portò, tra l’altro, a un nuovo sistema elettorale.

seggi elettorali

 

Lo scettro, ci venne autorevolmente spiegato, tornava nelle mani del popolo sovrano, finalmente avremmo avuto la certezza di sapere la sera stessa della domenica del voto chi ci avrebbe governato per il quinquennio successivo. Lasciamo pure da parte il fatto che, ai tempi del totocalcio, conoscere la sera della domenica i risultati di tutte le partite era essenziale, ma nessuno ha mai dato una spiegazione convincente del perché lo stesso principio dovesse valere per le elezioni. Il guaio è che, obiettivamente, non è andata benissimo. Per ricordarsi quei tempi, le loro indebite euforie e il successivo, rapido disincanto, bisogna aver varcato almeno la quarantina. E un ragazzino di che aveva undici anni al tempo delle dimissioni di Silvio Berlusconi e dell’incarico conferito da Giorgio Napolitano a Mario Monti ha fatto in tempo ad arrivare quasi alla laurea senza aver mai saputo di un solo governo che fosse espressione della volontà degli elettori. Abbiamo in compenso avuto governi “politici” e “tecnici” sorretti da maggioranze risicate o assai vaste, ma sempre abborracciate, e persino un premier venuto alla politica da chissà dove, Antonio Conte, che ha guidato consecutivamente – credo sia un primato mondiale – prima una coalizione gialloverde poi una coalizione di segno opposto, giallorossa.

Tutto questo è avvenuto quasi sempre, si capisce, in nome di uno stato di emergenza, dettato di volta in volta dalla crisi finanziaria, dall’immigrazione, dalla pandemia, dalla guerra.

Indiscutibilmente, le emergenze in questione (e se è per questo, altre ancora, di cui però in campagna elettorale si è parlato poco e spesso a vanvera: dalla pace a una questione sociale che, da molto seria si sta facendo paurosa, dalla giustizia ai diritti) ci sono state, ci sono, e almeno alcune di esse con ogni probabilità sono destinate ad aggravarsi pericolosamente, speriamo solo (spes contra spem) non troppo drammaticamente: era da quando portavo i pantaloni corti che non si parlava della guerra atomica come di una possibilità concreta. Ma l’emergenza più grave, verrebbe da dire: l’emergenza delle emergenze, è, agli occhi di molti elettori angosciati più ancora che indecisi, perché pensano che comunque il loro voto non serva a niente, il collasso della politica o, quanto meno, della politica democratica. Quella politica democratica in nome della quale, tra l’altro, famiglie intere si accalcavano un tempo prima di entrare in cabina di fronte alle liste per scegliere a quali candidate e candidati del loro partito dare la preferenza.

 

Questo democraticissimo piacere ci è stato, si sa, democraticissimamente sottratto da tempo, è vero. Ma è altrettanto vero che, finché a contendersi il governo del paese ci sono state bene o male (a essere sinceri: molto male) due coalizioni, quanto meno per gli elettori tutto risultava più semplice. Per scegliere l’Ulivo o l’Unione e i loro candidati nei collegi uninominali non era necessario condividerne, magari alla lontana, strategia, visione politica, programmi: anche la sola voglia di votare contro Berlusconi e la destra poteva bastare, e bastava. Ma, insisto, anche se si fa finta che non sia così, le cose sono cambiate da un pezzo. E la stessa logica del voto “utile”, giusta o sbagliata che fosse, non è più applicabile. In particolare in queste elezioni. C’è, da una parte, un cartello elettorale formato da un partito universalmente stimato in crescita vistosa e da due altri altrettanto universalmente reputati in vistosa crisi, con l’aggiunta di un drappello di cosiddetti “moderati” in servizio permanente effettivo.

È più che probabile che questo cartello le elezioni le vinca ma, prima di capire se sarà in grado di governare, bisognerà stabilire se e quanto l’avanzata di Fratelli d’Italia basterà a compensare e a sopravanzare le perdite, date anch’esse per scontate, di Lega e Forza Italia. E dall’altra parte? Dall’altra ci sono tante cose. Il Pd, nato quindici anni fa ostentando nientemeno che una vocazione maggioritaria, adesso incrocia le dita per arrivare al traguardo, con i suoi junior partner, il meno lontano possibile non, ovviamente, dalla destra nel suo complesso, ma dal partito di Giorgia Meloni. Matteo Renzi e Carlo Calenda, che sperano in un risultato sufficientemente certo da riaprire i giochi in vista del ritorno di Mario Draghi o almeno della sua agenda, anche in nome dell’Europa, della Nato e del contrasto all’orso moscovita, e probabilmente condividono questa speranza con Enrico Letta, che però, si capisce, non può dirlo apertamente. Giuseppe Conte e i Cinque Stelle che, se fossero rimasti al governo sarebbero scomparsi o giù di lì, e invece sono stimati in grande risalita, specie nel Mezzogiorno, dove potrebbero strappare alla destra anche collegi fino a ieri reputati non contendibili. E pure de Magistris.

“Voto utile”? Se il problema è quello – ai miei occhi per nulla secondario – di contenere l’avanzata della destra a trazione Meloni, si potrebbe anche dire che votare per il micro cartello messo in campo dal Pd è più “utile” in Emilia e che votare i Cinque Stelle lo è in buona parte del Mezzogiorno: ma queste sono furbizie, magari imposte da una sciagurata legge elettorale demenzialmente lasciata intatta, cui però è difficile si appassionino troppo le mie amiche e i miei amici che non sanno dove sbattere la testa. Così che, e non solo nelle chiacchiere conviviali, fa capolino (e qualcosa di più) la tendenza a discutere prima ancora che aprano i seggi su quel che accadrà a sconfitta consumata. In un passato ormai remoto c’è stato spesso chi (tra i democristiani, tra i socialisti, persino tra i comunisti) ha puntato nemmeno troppo silenziosamente sulla sconfitta del proprio partito, nella speranza che a questa avrebbe fatto seguito la resa dei conti, e cioè un congresso per cambiare leader e linea politica. Un simile atteggiamento non ha in realtà mai portato bene a nessuno, ma non è questo il punto. Il punto è che per fare dei congressi veri servono dei partiti veri, in cui si confrontano, e nel caso si scontrano su scelte chiare per militanti veri, dei leader veri. Di tutto questo si è perso il ricordo da tempo quasi immemorabile.

Ps. Temo che queste banali considerazioni, invece di alleviare lo smarrimento di chi non sa ancora se e come votare, possa renderlo ancora più cupo. Ma questo non è davvero nelle mie intenzioni. Mi è obiettivamente impossibile, e me ne dolgo, fare mio lo slogan con cui si concludevano i comizi del Pci, e che ho ripetuto, da giovane, un’infinità di volte: “Non un voto vada disperso, non un voto vada perduto”. Non mi resta che fare mio (dimmi tu, la vita …) l’antico appello dei Comitati civici di Luigi Gedda: “Vota, e vota bene”. O meglio, nel nostro caso: “Vota, e vota benissimo”.

Chi votare contro questa sinistra e destra, perché bisogna cercare di votare bene almeno o meglio benissimo.…ultima modifica: 2022-09-25T09:40:12+02:00da bezzifer
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