Sulla presunta riedizione dell’eterna sfida a sinistra fra D’Alema e Veltroni.

Bonaccini non ha la finezza e il cinismo del primo, mentre in Schlein non trovo assonanze con il secondo

Non mi convincono chi sostiene e dicono ‘’Dopo mezzo secolo la sinistra italiana è ancora lì: D’Alema vs Veltroni’’, riconduce – con un ampio volo pindarico – l’attuale dibattito del Pd alla contesa perenne tra due leader, ormai storici, come Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Stefano Bonaccini ha svolto un ruolo importante nel determinare, con la vittoria nelle elezioni regionali, l’interruzione della “resistibile ascesa” di Matteo Salvini e ha in dote la concretezza di coloro che Palmiro Togliatti definiva “i bravi compagni dell’Emilia rossa”, ma non ha la finezza e il cinismo di Massimo D’Alema, che, non lo si dimentichi mai, è stato l’unico ex comunista a entrare a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio, grazie a un’operazione trasformistica, orientata niente meno che da Francesco Cossiga, di una parte del centrodestra, dopo la crisi del primo governo Prodi di cui Walter Veltroni era vice presidente del Consiglio.

Non ho capito se Martini pensi a una qualche assonanza tra Elly Schlein e Veltroni. Sarebbe un paragone che non regge perché Veltroni – che dichiarava di non essere mai stato comunista – si ingegnò a importare modelli – anche organizzativi e procedurali, come le c.d. primarie – che guardavano al di là dell’Atlantico, facendo del Pd il partito nel quale si riconosceva gran parte dell’establishment e delle classi dirigenti. Quello stesso ruolo che il Pd di oggi – il partito che “risale in disordine e senza speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza” – vorrebbe abiurare per andare a caccia “dell’isola che non c’è” con Elly Schlein.

Sia detto per inciso: credo che non ci sia un solo partito al mondo che si penta di aver governato (democraticamente) per dieci anni sugli ultimi undici. Poi – lo sappiamo – anche agli importanti leader politici è consentito cambiare opinione, quando mutano le circostanze storiche, economiche e sociali. Anzi è bene che sia così perché, in politica, gli errori sono sempre la conseguenza di analisi sbagliate. Lasciando a ciascuno la sua libertà d’opinione su quale sia stato il miglior D’Alema – se quello di adesso o quello rievocato da Fabio Martini – resta comunque assodato che i fatti hanno la testa dura.

Il governo D’Alema mandò gli aerei a bombardare Belgrado. In precedenza, quando era segretario del PdS, tentò di normalizzare i rapporti con Silvio Berlusconi e, d’intesa con il Cav, presiedette la Commissione bicamerale sulle riforme quando sembrò a portata di mano un’intesa, che venne fatta saltare proprio dal leader di Forza Italia. D’Alema, sia da capo di partito che da premier, polemizzò a lungo con Sergio Cofferati, allora potente e incontrastato leader della Cgil, anche sui temi del lavoro: “Proprio se vogliamo spingere in avanti una politica per il lavoro, noi dobbiamo avere il coraggio di un’opera di rinnovamento”, sosteneva il leader maximo. E poi continuava: “Ho sentito Cofferati, anche a differenza di altre occasioni, più chiuso e più sordo. Noi ci sentiamo sfidati dalla realtà ad una necessaria riflessione critica. La mobilità, la flessibilità, sono innanzitutto un dato della realtà. E persino qualcosa che corrisponde a un modo diverso, nella nuova generazione, di guardare al lavoro e al proprio rapporto con il lavoro”.

Affermazioni eretiche anche adesso. Nel 1998 a Firenze nell’assemblea degli Stati generali della sinistra, l’allora segretario del Pds Massimo D’Alema lanciò la così detta Cosa 2, ovvero un “cantiere politico” per un nuovo partito federativo della sinistra che unisse ex Pci, socialisti e riformisti cristiani. Furono cambiati nome (Democratici di Sinistra) e simbolo (la rosa del socialismo europeo al posto della vecchia falce e martello, ai piedi della quercia). Al Congresso di Pesaro nel 2001 Massimo D’Alema sostenne la candidatura alla segreteria di Piero Fassino contro Giovanni Berlinguer a capo di una mozione di minoranza promossa e sostenuta da Cofferati e dalla Cgil. Un destino beffardo ha voluto che toccasse soltanto a due segretari del Pci-Pds-Ds-Pd – D’Alema e Renzi – di essere contrastati dalla Cgil e dai suoi leader di turno. Nonostante che nessun ex Pci, dopo D’Alema, sia stato in grado di arrivare alla guida di un governo, il leader maximo ha pagato questo primato tirandosi addosso molte critiche, invero ingenerose, non solo a causa del suo carattere, ma soprattutto della sua politica.

Nel 1999 D’Alema riuscì a convocare a Firenze altri cinque capi di Stato e di governo: Bill Clinton, Tony Blair, Lionel Jospin, Gerhard Schroeder, Fernando Cardoso – e le altre personalità – da Hillary Clinton al presidente della commissione europea Romano Prodi. Allora non era “controrivoluzionario”, come adesso, parlare di terza via. In quegli anni D’Alema invitava gli imprenditori a crescere, a investire e ad arricchirsi. Li spronava a segnalare gli ostacoli incontrati sul loro cammino affinché il governo potesse “toglierli di mezzo” (sono parole che abbiamo sentito anche di recente da un’altra persona). I maligni andavano in giro dicendo che Palazzo Chigi era l’unica merchant bank dove non si parlava inglese. Le scarpe indossate dal premier erano al centro dell’attenzione dei pettegoli e dei perdigiorno.

Sulla presunta riedizione dell’eterna sfida a sinistra fra D’Alema e Veltroni.ultima modifica: 2022-12-06T11:24:59+01:00da bezzifer
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