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IL NUOVO MASIANELLO.


Omuncolo, meschino e bugiardo patologico.

Omuncolo, meschino e bugiardo patologico.Più che masaniello un asinello con tanto di rispetto per i ciuchi che sono signori rispetto al soggetto suindicato. Vorrai dire il nuovo parassita che ruba i soldi agli italiani per darli ai furbi, ai truffatori,alle mafie che gli portano ossigeno per farlo sopravvire.Che schifo, provo per lui una profonda repulsione.Svegliatevi, napoletani, siciliani e calabresi, questo soggetto inqualificabile,vi ha reso schiavi,e vi tiene legati con le mancette. conte con il voto di scambio con il condono vi ha tolto anche la dignità.

Le sue campagne si basano sempre sul ricatto e l’ assistenzialismo al Sud, che vive di quello.

Traveste un palese voto di scambio da ” dignità”. Ma tra noi non ci crede nessuno. Il M5S….è una vera sciagura per tutti !!

ORA. In questo bailamme che continua tra incompetenze,populismi ed invidie,tutti stiamo perdendo.Un’ Italia allo sbando. Ma spero che in questo momento qualcuno dovrebbe prendere in mano questo scivolare nella palude….ritrovare l’ equilibrio e la consapevolezza!! chi ? gli unici che possono tirarci fuori da questa palude sono solo DRAGHI E RENZI. ORA SFOTTETE PURE MA LA REALTA O VERITA E QUESTA.FETEVENE UNA RAGINE.

Giuseppe Conte è il nuovo Masaniello, sceso in piazza a difendere l’oro di Napoli (il RdC)!
Si sente il paladino degli scalzi che sono presi, secondo lui, a calci in bocca dal Governo Meloni.
Seduto in piazza, tocca spesso il collo del dolce vita blu che indossa da esistenzialista. Dice: “La nostra protesta sarà pacifica porterò in piazza, a Roma, le storie dei percettori del reddito. Si tratta di dignità sociale contro pochi comportamenti fraudolenti” mentre anche ieri sono emerse truffe per altri 10 milioni che paghiamo noi che aggiunti ai miliardi precedenti fanno una cifra iperbolica.
Lui, l’avvocato del popolo, è un populista anomalo!
Siamo di fronte ad un mistero napoletano??
“Preside’ m’arraccumann!” urla una piccola folla organizzata dalla CGIL.
È una specie di Samarcanda alla Michele Santoro. Inizia con un presidio di lavoratori dell’Inps riassunti dopo essere stati esternalizzati.
“Merito del mio Governo” precisa Giuseppi. Qui sono 800 in tutta Italia 3000.
Bandiere rosse, ciuffo presidenziale sullo sfondo.
Il PD è assente, è il Viceré che saluta i lavoratori.
Viene alla mente il “gratuitamente” del Superbonus!
Lo aspettano a S. Giovanni a Teduccio e a Scampia dove il M5S, ha preso il 64%. In quelle terre abbandonate è tradizionale, dai tempi di Lauro, il voto di scambio per sopravvivere. Non per giustificare Lauro ma almeno lui ci metteva i soldi suoi mentre Gonde ci mette i soldi degli italiani che pagano le tasse.
Intanto la Lega in Lombardia non è più di Salvini che ha perso non solo Milano ma anche Cremona, Brescia e Lodi. Il PD è distrutto in attesa del Congresso che nomini un Segretario che li porti fuori dalla palude e metta a posto le cose distrutte con vera sapienza da Letta .
Il Governo continua a latitare adesso per colpa di Draghi. Giorgia lo dice ed aggiunge che gli ha lasciato trenta cose da fare! Meno male che le altre le aveva fatte mentre era comunque era decaduto e con un vero senso dello Stato gli ha lasciato un tesoretto e ci ha supportato fino alla fine senza mancare ad un solo appuntamento! Avrebbero dovuto aspettare che Draghi portasse a complimento tutte le riforme previste dal PNRR prima di cacciarlo invece di sbraitare ai quattro venti che erano PRONTI.
Il migliore, Matteo Renzi, è l’unico che potrebbe sopperire allo scempio ma è tenuto, fra invidie e cospirazioni, sempre in panchina!
Con le correnti attuali non c’è spazio per le novità. Tutto procede senza un programma serio.
Le correnti sono diventate protettorati.
Perdono tutti e con loro perdiamo noi! Svegliamoci!!

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Pd, Renzi: “Su congresso ci chiamano in ballo tutti, ma noi siamo fuori”

Sul congresso del PD ci chiamano in ballo tutti e tutti i giorni. Noi ovviamente noi non ci siamo ,siamo totalmente e giuatamente fuori dal congresso. Forse vale la pena ricordare ai compagni e amici del PD che c’è stato un momento in cui il PD vinceva e quel gruppo dirigente che aveva portato il PD a vincere è stato oggetto di una lotta intestina, di una guerra fratricida, di un costante logoramento interno. Per chi ancora mi dice: ma perché non sei rimasto nel PD, consiglio di vedere questi 6/7 minuti. E comunque prima o poi qualcuno spiegherà a chi continua ad attaccarmi che da quando io non sono più segretario del Pd ci sono stati altri tre segretari: Martina, Zingaretti, Letta. Continueranno a prendersela con me o inizieranno a fare politica?“. Così Matteo Renzi, leader di Italia Viva, nella sua e-news.

E! L’ incapacità del PD continuerà anche nei prossimi anni anche con il nuovo segretario che già stanno tramando per mandarlo a casa chiunque fosse. È la loro malattia. E con gran stupore e meraviglia.. sono andati indietro perdendo voti. Ummm.. non c’è che dire! Sono stati molto bravi nell’aver perso milioni di voti. Bravi, bravi, continuate così e continuate pure a fare le lotte fratricide. Bisogna dirlo, in questo sono eccezionali, sono imbattibili. Sono stati capaci di fare arrivare al potere ed al Governo la Destra dei Fratelli d’Italia e Company. Sarete molto contenti ora che siete dei falliti all’opposizione.

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25 obiettivi in 26 giorni. Spiego che se il Pnrr è in ritardo la colpa non è del governo Draghi.


NON SANNO DA CHE PARTE GIRARSI.INCOMPETENTI

«Sulla governance hanno cambiato così tanto che qualche paura ce l’avrei anch’io», dice l’ex ministro. «Ci chiediamo qual è il ruolo del Mef e della Ragioneria, che erano l’architrave su cui poggiava tutto e agivano in filo diretto con Palazzo Chigi». Per i sovracosti dovuti all’inflazione, «abbiamo approvato una disposizione da 7 miliardi». E sul rafforzamento della progettualità degli enti locali, «non ho letto niente in legge di bilancio»

«Noi sappiamo benissimo che il Pnrr è l’unico vero e decisivo strumento di sviluppo e crescita per il Paese, e quindi non lavoreremo mai per opporci pregiudizialmente o ostacolarne il cammino. Ma non accettiamo l’accusa di aver accumulato ritardi: abbiamo fatto tutto quanto era dovuto, e anche di più». Vincenzo Amendola, oggi deputato Pd, è stato – nelle vesti di ministro agli Affari europei nel Conte due e sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Draghi – un punto di riferimento per il Piano nazionale di ripresa e resilienza fin dal suo avvio. Conosce alla lettera i meccanismi per far funzionare l’arrivo in Italia dei fondi europei del Next Generation Eu. E a Repubblica dice: «Avevamo messo a punto una macchina oliata e funzionante per gestire un’operazione così complessa. Ci aspettiamo che il nuovo governo faccia altrettanto».

L’Italia, ora, ha a disposizione solo 26 giorni per centrare i 25 obiettivi previsti entro fine anno e ricevere la terza rata da 19 miliardi. Per Amendola, le colpe dei ritardi però non vanno ricercate nell’esecutivo precedente come tenta di fare Meloni. «Il passaggio della campanella da Draghi a Meloni è del 22 ottobre», dice. «A quel punto erano stati conseguiti 25 obiettivi su 55. Per comparazione, il 20 aprile 2022, quando mancavano gli stessi 70 giorni alla scadenza di fine giugno, gli obiettivi raggiunti erano nove su 45. All’inizio di giugno, un momento paragonabile a oggi cioè a circa un mese dalla rendicontazione, ne erano stati raggiunti 25. È naturale che in un programma a scadenze ravvicinate e incalzanti come il Pnrr gli obiettivi vengano raggiunti verso la fine del periodo, è insito nel concetto stesso di stato di avanzamento. Con volontà e determinazione è assolutamente possibile farcela. Non capisco questo mettere le mani avanti, come a dire: se non ce la facciamo non è colpa nostra. L’allarme è ingiustificato a meno che non si sentano in difficoltà per loro motivi organizzativi».

Le ragioni potrebbero essere diverse, spiega l’ex ministro: «Sulla governance hanno cambiato così tanto che qualche paura ce l’avrei anch’io. Ho tutta la stima per il ministro Fitto che dovrebbe essere il perno dell’attuazione. Ma ci chiediamo qual è il ruolo del Mef e della Ragioneria, che erano l’architrave su cui poggiava tutto e agivano in filo diretto con Palazzo Chigi, com’è logico per una misura da 200 miliardi più 100 di fondi ordinari».

Amendola dice che «sulle riforme abbiamo spianato il cammino il più possibile. Perfino sulla più complessa e divisiva, la giustizia, siamo riusciti a far approvare una legge delega che si allargava a tutti i comparti e attendeva i decreti d’attuazione. Come primo atto del governo Meloni, che se ne è assunto la responsabilità, quella penale è stata rinviata. Ora dovrebbero provvedere, o se hanno cambiato idea vengano in aula a spiegarlo».

E sulla concorrenza, altro punto su cui Bruxelles è sensibilissima: «Nel consiglio dei ministri del 16 settembre, l’ultimo nella pienezza dei poteri, abbiamo approvato due decreti legislativi (servizi pubblici locali e mappatura concessioni pubbliche) attuando la legge delega approvata ad agosto, che contiene gli elementi per risolvere la vexatissima quaestio dei balneari. Nessun ritardo».

Restano gli investimenti, con due problemi: i costi lievitati per l’inflazione e l’incapacità progettuale degli enti locali. «Per i sovracosti abbiamo approvato una disposizione da 7 miliardi. È un tema sentito in tutta Europa ed è lì che si deve raggiungere un accordo», dice Amendola. «Altro è intraprendere modifiche più profonde e in quel caso il governo se ne assuma i rischi politici. Sul rafforzamento della progettualità, si è avviato un ambizioso piano di assunzioni, affiancando le amministrazioni locali. La prima task-force da 1.000 persone è stata ingaggiata, ma siamo a un’emergenza: la fragilità delle piante organiche della pubblica amministrazione è esplosiva soprattutto al Sud, ma su questo non ho letto niente in legge di bilancio».

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La strana coppia. Mentre il Pd discute di liberismo, Conte e Landini rifondano la sinistra demopopulista

È sempre più inevitabile la saldatura tra lo storico sindacato di sinistra e il Movimento 5 stelle. E i ruoli dei due leader, si fa per dire, ormai paiono del tutto sovrapponibili

Se va al Nazareno non fa notizia, se va da Giuseppe Conte sì: è dai particolari che si giudica un giocatore come Maurizio Landini, il capo di quella Cgil che ormai al non crede più al Partito democratico e guarda al partito dell’avvocato del popolo (e molti suoi iscritti direttamente a Giorgia Meloni) come al vero protagonista della lotta politica contro il governo. L’ennesima riprova di un sindacato che rischia di essere la cinghia di trasmissione del partito personale di Conte si è avuta ieri con il lungo e cordialissimo incontro tra il segretario della Cgil e l’ex presidente del Consiglio, chez lui, nell’ufficio del Movimento.

Landini ha praticamente saldato la protesta del suo sindacato (insieme alla fedele Uil, mentre la Cisl è più guardinga) a quella dei post-grillini nel nome soprattutto del no alla modifica del reddito di cittadinanza che secondo i desideri del governo andrà piano piano in soffitta: «Abbiamo ascoltato il giudizio del Movimento 5 stelle che su molte nostre richieste condivide e c’è un terreno importante e comune di iniziative», ha dichiarato Landini. Musica per Conte che ha trasformato il reddito di cittadinanza nel grimaldello utile a scardinare i forzieri dei voti soprattutto al Sud.

Si dirà che la Cgil vede tutti, anche il Pd, ma non se n’è accorto nessuno. Invece ieri c’è stata maggiore enfasi mediatica, e non casuale, sull’ennesimo abbraccio tra Landini e Conte, la strana coppia della lotta sociale 2.0, una saldatura tra lo storico sindacato di sinistra e il partito del populismo italiano nel quale i ruoli tra il Conte-Masaniello e il Landini leader politico paiono ormai del tutto sovrapponibili.

D’altronde l’avvocato foggiano ha preso tutta la scena dell’opposizione: è vero che il Pd ha iniziato sabato la sua mobilitazione contro la legge di Bilancio – della quale però non sono giunte particolari notizie – che culminerà in una manifestazione il 17 dicembre ma nell’immaginario collettivo il partito di Letta appare ben più arrovellato sulle questioni sue interne, cioè su un congresso che si va scaldando con la sfida tra Stefano Bonaccini e Elly Schlein, che sulla battaglia sociale; ed è davvero paradossale che una parte del Pd abbia messo nel mirino il liberismo e rilanciato il tema delle disuguaglianze sociali ma che i suoi dirigenti non pensino a organizzare qualche uscita davanti alle fabbriche con il megafono in mano, mentre Conte si fa riprendere dalla telecamera in mezzo ai disoccupati napoletani.

E questo mentre, dall’altro lato, il Terzo Polo ha provato a entrare nel merito aprendo un dialogo con Meloni e inserendo una piccola zeppa tra Forza Italia e il resto della maggioranza, e si vedrà in Parlamento se la mossa di Carlo Calenda avrà ottenuto qualche risultato.

Schiacciato dunque tra la piazza (non solo in senso materiale ma anche in quello della postura) di Landini-Conte e la tattica negoziale di Calenda, il Pd appare un pochino in ritardo sia sulle sue manifestazioni di partito che per forza di cose non saranno gigantesche e il gioco politico tanti disprezzato quando a praticarlo è il Terzo Polo ma che nei prossimi giorni dovrà vedere protagonista anche il partito di Letta.

Il che tra l’altro dovrebbe essere facilitato dal clima negativo che sta circondando la manovra del governo, ultima la bocciatura della Banca d’Italia. Non ci vorrebbe molto per riprendersi la scena, non è normale per un partito con le tradizioni del Pd subire la concorrenza dei populisti e l’iniziativa politica dei riformisti. Tocca a Enrico Letta prendere in mano la situazione. Se ci riesce.

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Il Pd è nato per superare l’accozzaglia, ma quindici anni dopo rischia di ricascarci

Che al congresso vinca Bonaccini o Schlein, più che la deriva radicale, il pericolo sembra essere il riflusso verso il modello Unione: una carovana di cui i democratici non sarebbero più nemmeno i capofila.

Con i giochetti intorno alla «fase costituente» e al «manifesto dei valori», il tasso di ipocrisia del dibattito interno al Partito democratico ha superato ogni record precedente, rischiando così di offuscare completamente i reali termini della discussione.

È un giudizio che può apparire severo solo a chi negli ultimi cinque anni sia stato molto distratto. Basta ricordare che alle precedenti elezioni del 2018 il Pd guidato da Matteo Renzi aveva ottenuto il 18,7 per cento, minimo storico, e che di conseguenza nel marzo 2019 aveva stravinto le primarie, con il 66 per cento, Nicola Zingaretti. Motivo per cui il 66 per cento dell’Assemblea nazionale (il “parlamento” del Pd) dal 2019 è composto da dirigenti che a Renzi contestavano la deriva liberista e di destra, propugnando il ritorno all’identità di sinistra. Questa è la piattaforma su cui è stato eletto il segretario e che giustamente e democraticamente si è riverberata, a cascata, in tutti gli organismi, gli incarichi, le nomine (compresa quella del successore di Zingaretti, Enrico Letta, il quale ha proceduto da par suo a completare l’opera con le ultime liste elettorali).

Quattro anni dopo, nel 2022, il Pd ha preso più o meno gli stessi voti di quattro anni prima (19,1 per cento, con dentro Articolo 1, la lista-associazione di Elly Schlein e una manciata di altri microsoggetti), ma a seguire il dibattito negli organismi dirigenti sembra di riascoltare parola per parola l’analisi del voto del 2018: il problema è sempre la deriva liberista e di destra impressa dal renzismo, nonostante Renzi e i renziani dal Pd se ne siano andati ormai quattro anni fa, pochi mesi dopo l’ultimo congresso, per fondare un altro partito.

Sarebbe ora che i vincitori del congresso del 2019 si prendessero la responsabilità dei risultati del 2022. Il problema è che questo impedirebbe loro di riproporre le stesse ricette e gli stessi slogan (dell’ultimo congresso e delle ultime elezioni). Così preferiscono prendersela da un lato con le scelte compiute da Renzi nel 2018, nel 2016 e nel 2014, dall’altro addirittura con il Manifesto del 2007, dove secondo alcuni già si sarebbero annidati i germi della famosa deriva liberista (senza peraltro che nessuno di loro se ne accorgesse, almeno fino a ieri, cioè per ben quindici anni).

In un certo senso, viene voglia di dare ragione a Michela De Biase, neodeputata del Pd e moglie di Dario Franceschini, che a Repubblica spiegava ieri il suo sostegno a Elly Schlein. In particolare quando, all’obiezione: «Schlein ha criticato duramente il Pd com’è stato sin qui», rispondeva senza esitazione: «A me non è parso».

In effetti Schlein, alle ultime elezioni, era la candidata di punta del Pd di Letta, il simbolo del rinnovamento e della cosiddetta svolta a sinistra (personalmente avrei delle obiezioni su entrambe le definizioni, ma prendiamo per buone le categorie del dibattito che si è svolto sui giornali e in tv senza troppo filosofeggiare). Per quale motivo, dunque, dovrebbe essere oggi la candidata di rottura? Semmai sarà la candidata del gruppo dirigente uscente, che prima l’ha pregata con successo di dimettersi da vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, a neanche due anni dalla sua elezione, per candidarsi al Parlamento, e ora la prega di prendere gentilmente la tessera affinché possa candidarsi a capo del partito, cosa che dopo lunghe riflessioni ha finalmente accettato di fare (ovviamente «in punta di piedi» e sempre mettendo al centro «il noi» piuttosto che «l’io»).

Dall’altra parte, in compenso, c’è Stefano Bonaccini, che ripete anche lui, proprio come Schlein, e come ogni candidato alla segreteria del Pd dalla sua fondazione a oggi, di volerla finire con le correnti, di voler ripartire «dai territori», dai sindaci e dagli amministratori locali, e di voler rilanciare l’identità del Pd.

Il quadro non sarebbe completo se però non aggiungessi anche la versione di Renzi, il quale da un po’ ha ricominciato a raccontare la vecchia storia secondo cui il vero scontro sarebbe, da sempre, quello tra chi voleva fare il Pd, come Romano Prodi e Walter Veltroni (e Renzi medesimo, of course), e chi invece quel progetto lo ha sempre sabotato, come Massimo D’Alema.

Non è così, la storia è molto più complicata e assai meno lineare, ma non c’è bisogno di ricominciare sempre dall’inizio. Qui basta segnalare che il video citato dallo stesso Renzi, in cui D’Alema nel ’99 irride chi vorrebbe fare un grande partito democratico con dentro di tutto, dai verdi ai neocomunisti, non è affatto in contraddizione con il progetto del Pd per come fu effettivamente realizzato (e che infatti i fautori di quella soluzione contrastarono in ogni modo, definendola una «fusione fredda»).

Il Partito democratico fu il frutto di un lungo e complicato lavoro, pieno di contraddizioni e passi indietro, ma non fu mai il partito unico del centrosinistra, non fu mai il partito-coalizione all’americana, bensì l’unione dei riformisti per creare l’equivalente italiano della Spd tedesca, del Labour britannico, del Psoe spagnolo. E non sarebbe mai nato se D’Alema nei Ds da un lato e Franco Marini nei Popolari dall’altro non avessero spinto in quella direzione, trovando su questo un accordo con Prodi (che avrebbe preferito l’altra strada).

La tensione originaria, al di là dei personalismi, era semmai proprio tra queste due diverse idee di cosa dovesse essere il Pd: un partito riformista, con un’identità precisa (ben distinta da radicalismi e populismi di altre forze del centrosinistra), o un partito-coalizione la cui identità, nei fatti, non era altro che la somma delle sue parti, traducendosi in concreto in una sostanziale delega in bianco al leader, incoronato dalle primarie e candidato (di fatto) a Palazzo Chigi.

Il convitato di pietra del dibattito di oggi non è dunque Renzi o il renzismo, ma semmai Prodi, o meglio ancora il prodismo, inteso per l’appunto come quell’idea di centrosinistra: una carovana costantemente impantanata in estenuanti mediazioni interne, che produceva governi da cento sottosegretari e tavoli di coalizione che occupavano l’intera Reggia di Caserta (e questa non è una battuta, purtroppo).

È proprio per rispondere all’impraticabilità di quel modello che era nato il Pd. È per liberarsi da quella zavorra che Veltroni aveva compiuto la discutibile scelta di annunciare la corsa solitaria alle elezioni del 2008. Ed era proprio per non tornare in quella palude che Renzi nel 2010 aveva lanciato la sua sfida a Pier Luigi Bersani e ai suoi progetti di coalizioni larghissime (e a geometria variabile). Eppure è proprio a quella non esaltante stagione che il Pd rischia di ritornare – a quelle coalizioni interminabili capaci di vincere a stento le elezioni (sarebbe più corretto dire pareggiare, specie nel 2006) ma mai di governare – tanto più adesso che il Movimento 5 stelle sembra collocarsi più o meno dove si trovava il suo primo prototipo, l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro.

L’impressione è che né Bonaccini né Schlein abbiano la forza e forse nemmeno la volontà di evitare un simile ritorno al passato, e che tante chiacchiere sull’identità del Pd e tante pose più o meno innovative o radicali nascondano al contrario un riflusso verso quello schema dell’Unione prodiana che il Pd era nato per superare. Con l’ulteriore aggravante che oggi, in una coalizione del genere, ammesso e non concesso che si riuscisse a formarla, i democratici non sarebbero nemmeno il principale contraente.

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Se penso alla possibilità di un futuro migliore per l’Italia credo che, forse, il PD di Bonaccini potrebbe essere più utile del PD di Elly Shlein.

Se penso alla possibilità di un futuro migliore per l’Italia credo che, forse, il PD di Bonaccini potrebbe essere più utile del PD di Elly Shlein.

Ma credo anche che il successo del Terzo Polo sarebbe più favorito dal PD di Elly Shlein, che sancirebbe l’uscita definitiva dei democratici dal campo riformista e la loro chiusura nella riserva indiana del populismo di sinistra.

Con una importante perdita di consensi che troverebbero nuova rappresentanza in Renew Europe.

Oggi abbiamo avuto la possibilità di ascoltare sia Renzi, nell’introduzione all’Assemblea nazionale di Italia Viva che ha approvato la Federazione con Azione di Calenda, sia il discorso di candidatura di Shlein alla segreteria del PD.

Due visioni diametralmente opposte. Nei presupposti, negli obbiettivi, negli sbocchi politici attesi.

Renzi propone un cambiamento concreto indicando ai cittadini, alle forze politiche e al governo, sei azioni da realizzare subito nei campi della salute, della cultura, dell’Europa, del lavoro, del territorio e dell’avvenire attraverso un metodo di confronto aperto sulle soluzioni prospettate.

Sfidando il governo a modificare le sue decisioni ritenute inadeguate o sbagliate.

Solo la pigrizia mentale o la mistificazione interessata di alcuni può rappresentare questo come voler fare la ruota di scorta al governo Meloni.

Una opposizione, quella del Terzo Polo, che incalza il governo sulle cose, per aiutare gli italiani a risolvere i loro problemi, non rimandandoli ad una fatidica ora X della sconfitta della destra. Così si costruisce un consenso alternativo.

Shlein, invece, ha ripetuto concetti che ho sentito rispolverare nei momenti di crisi della sinistra almeno una decina di volte negli ultimi quaranta anni. Vecchie strade già battute, tra nuova enfasi e vecchia retorica.

Unica novità è una più chiara utilizzazione delle “nuove” crisi, ambientale, energetica, demografica, come surrogato della vecchia lotta di classe. Amici del PD preparatevi, con Elly, a una lunga palestra.

Uno schema ideologico, quello di Shlein, rassicurante per gli orfani del vecchio mondo. Per chi non riuscendo a capire quello nuovo immagina che per cambiarlo basti rilanciare i vecchi schemi, colpevolmente abbandonati dai “cattivi” spostatisi a destra, raccontandoli con nuove parole.

Non pretendo che la mia passata storia di militante della sinistra faccia testo. Voglio solo dire, sinceramente, che ho già incontrato tante Shlein e sentito mille volte gli stessi discorsi, visto tanti occhi brillare di speranza e commozione, sentito cantare tante canzoni, belle come una vecchia madre.

Elly, tu sei giovane, io no. Tu hai tempo da perdere, io no. Io ho imparato come si sbaglia e non me lo posso più permettere. Tu, dopo avere combattuto chi ci portò a vincere, ora immagini di vincere mettendo insieme proprio quelli che preferirono farci perdere.

Forse vincerai la segreteria del PD, o forse no. Non credo comunque che il tuo PD serva all’Italia che ha bisogno di cambiare davvero.

Penso che l’unico tuo risultato sarebbe una razionalizzazione della sinistra populista, irrefrenabilmente risucchiata nel gorgo minoritario di Conte.

Per questo la tua vittoria aprirebbe un’autostrada alla corsa del Terzo Polo. Starei per farti gli auguri.

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“CHE C’AZZECCA LA SCHLEIN CON IL PD?”

 

 

 

 

 

Una riflessione seria domenicale culturale/politica. La Schlein che ci fa nel Pd? che ci fa nella sinistra? La Schlein con quel pedigree familiare ebraico borghese colto aristocratico (in famiglia illustri accademici, avvocati, deputati, matematici) che fa si schiera dalla parte del partito dei lavoratori? Delle istanze dei più deboli? Dei giovani? Dei disoccupati? Degli studenti? dell’umanità dolente? Lei con la tripla cittadinanza? lei con la sorella nel corpo diplomatico? lei che viene dai palazzi dalle volte alte con antichi bassorilievi alle mura, dove hanno abitato poeti scrittori dove c’è ancora l’ascensore con il gabbiotto di ferro battuto e le tavole scricchiolano e l’odore della cera pervade gli androni. Lei che ha fatto il liceo a Lugano. Lei che organizza un po’ di tavole rotonde un po’ di dibattiti e magicamente a soli 29 anni è già Europarlamentare. Insomma ma una così che ci fa nel pd? Io la vedrei bene nel partito di Benjamin Netanyahu nel Likud, oppure discendere le scale dell’Eliseo dopo la conferenza stampa insieme alla biondissima raffinatissima incipriatissima Marion Jeanne Caroline Maréchal-Le Pen. Che c’entra questa donna ben educata con chi non arriva a fine mese? Che cosa conosce la signorina dei quartieri spagnoli o del “drugstore” più grande di Europa tra i palazzi di Scampia? Cosa sa questa figlia delle élite mitteleuropea dei giovani precari? Dei riders? della piccola impresa che arranca? delle difficoltà delle famiglie monoreddito coi figli all’università? È molto brava con le parole ha fatto ottimi studi ma è lontana anni luce dal #paesereale. È molto abile in politica usa il partito come un comodo taxi sale e scende alla bisogna. Il partito e la tessera sono utili quando bisogna entrare in direzione nazionale e bisogna farsi eleggere all’Europarlamento. Poi scende con un pretesto poi risale quando bisogna farsi eleggere al parlamento come capolista indipendente nelle liste del pd. La Schlein col quel background sa tessere alleanze ed ha l’appoggio dei coniugi parlamentari Franceschini, gli Orlando i Provenzano gli Speranza i Boccia e perfino la Sardina Sartori in cerca di un boccone. Tutti li a rappresentare la difesa dello Status quo, del proprio status quo! La vedo già li a chiedere e a promettere di voler cambiare tutto e di fatto lottare affinché nulla cambi veramente. Ecco difronte a questo mare di ipocrisia io voterei tranquillamente la bella raffinata e incipriata Marion Maréchal-Le Pen piuttosto che la naturelle (si fa per dire) trisessuale (pardon bisessuale) Elly.

È davvero bellissimo Renzi si trova in questo momento in una posizione win to win. Insomma comunque vada sarà un successo. Se il congresso Pd lo vince il tandem Bonaccini/Nardella siamo a cavallo abbiamo in quel partito persone di chiara fede riformista, persone fattive, perbene con le quali poter costruire qualcosa di alternativo al vomitevole campo largo coi grillini e il Conte Tacchia. Se vince la Schlein ancora meglio. Il pd assume un aspetto radicale (radical chic) conclude l’abbraccio mortale coi pezzetti di sinistra ed è pronto a posizionarsi con percentuali intorno al 7 in prima battuta per poi regredire al 2/3 (questo è quello che vale la sinistra in Italia) lasciando al centro un ampia prateria di istanze ruoli politiche. Questa è l’analisi. Ancora una volta il geniaccio di Rignano c’ha visto giusto.

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Niente rinvii.L’allarme di Gentiloni e Bonomi sui ritardi del Pnrr italiano

«Conosco bene le difficoltà dell’Italia», dice il commissario Ue. «L’unico Paese europeo che ha maggiore difficoltà di assorbimento delle risorse europee rispetto all’Italia è la Spagna, che sta cercando a testa bassa di mantenere gli impegni del Pnrr. Bisogna correggere quel che va corretto, ma lavorare per centrare tutti gli obiettivi». Per il presidente di Confindustria, sul Recovery «ci siamo un po’ smarriti». Una soluzione potrebbe essere la «gestione pubblico-privato»

In questo momento di crisi internazionale, l’Italia ha un problema in più rispetto ai partner europei, ovvero l’alto debito. «È un limite alle possibilità di sostegno all’economia. Ma c’è l’antidoto: il Pnrr. In che modo riusciremo a spendere questi soldi sarà molto importante». Il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni lo dice in un’intervista al Messaggero. E alla premier Giorgia Meloni che ha detto di non sapere se saremo in grado di centrare tutti gli obiettivi del piano a causa degli alti costi di energia e materie prime, risponde: «Questi problemi non sono solo italiani. I prezzi dell’energia sono insostenibili dal punto di vista della competitività internazionale per la gran parte dei Paesi europei».

Gentiloni spiega che «è una sfida che grava sull’intero sistema industriale europeo, anche di fronte alle decisioni prese dal congresso americano con il suo Inflation Reduction Act, un programma che incentiva fortemente la produzione americana». Ma, precisa, il Next Generation Eu, con un «debito comune di 800 miliardi, è una novità enorme». E «non è facilmente ripetibile dopo un anno». Attenzione, però: «La possibilità di ripetere fondi straordinari che mettano in comune il debito o, come sarebbe logico, avere una capacità fiscale permanente, dipende un po’ da come andrà il pnrr. Se funziona, questa esperienza sarà ripetuta».

Ma non sono ipotizzabili rinvii, come vorrebbe qualche membro del governo. «Conosco bene le difficoltà dell’Italia, non vengo dalla Norvegia», dice Gentiloni. «Però guardiamo anche ai nostri vicini. L’unico Paese europeo che ha maggiore difficoltà di assorbimento delle risorse europee rispetto all’Italia è la Spagna, che sta cercando a testa bassa di mantenere gli impegni del Pnrr. Bisogna correggere quel che va corretto, ma lavorare per centrare tutti gli obiettivi». Certo, «se ci sono dei ritardi vanno affrontati. Si possono fare dei ritocchi», ma la sfida «deve essere mantenuta. Per l’Italia questa è un’occasione e questa occasione non può essere perduta».

I servizi della Commissione europea in questi giorni stanno incontrando tutti i ministri per capire quali ritocchi servono. Ma a esprimere preoccupazione sull’andamento del Pnrr italiano è anche il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Che al Corriere dice: «Ci siamo un po’ smarriti. Nello spirito iniziale il Pnrr doveva imprimere una spinta aggiuntiva a nuovi investimenti. Noi invece l’abbiamo soprattutto volto a finanziare opere già previste, perché ci difetta capacità di progettare e realizzare progetti nuovi in pochi anni. Il Pnrr doveva nascere e attuarsi sulla base di un partenariato fra pubblico e privato, ma se n’è visto poco: è quasi tutto nella sfera del pubblico. Infine il Pnrr doveva risolvere i colli di bottiglia amministrativi e ordinamentali che il Paese soffre da decenni. Ma le riforme non si stanno facendo, questa è la realtà».

Bonomi fa un esempio: «Il primo bando per la più grande opera, la diga foranea di Genova, è andato deserto per la questione dei costi. Al secondo una ditta ha vinto e l’altra concorrente ha fatto subito ricorso al tribunale amministrativo regionale. Dunque, tutto fermo. Abbiamo tanti progetti ma mi chiedo se abbiamo abbastanza imprese invogliate a eseguirli. Abbiamo molti miliardi per gli investimenti e ciò doveva servire a rivedere e riallocare la spesa pubblica, ma non lo si fa».

Certo, «ci sono delle criticità, è innegabile. Ma dobbiamo lavorare tutti insieme per fare bene e in fretta. Se l’idea è di demandare molta gestione ai comuni, il più di essi non sono tecnicamente in grado». Una possibile soluzione? «Una gestione pubblico-privato secondo me può aiutare. Era nello spirito iniziale e dovremmo tornarci. Non vedo altra via», risponde.

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Diffidenza diffusa.Fidarsi degli altri è più complesso di quel che si crede.

In quest’epoca si spegne l’interruttore che attiva le relazioni affettive, professionali, personali. Cè chi propone una raccolta di spunti teorici e pratici per provare a invertire una tendenza di lungo periodo.

Quando al mattino premiamo il bottone della radiosveglia per interromperne il fastidioso cicaleccio, inizia il nostro viaggio quotidiano nella fiducia. Quel gesto semiautomatico, infatti, si basa sull’aspettativa positiva che la corrente elettrica che passa dalla sveglia non ci fulmini, sulla fiducia pigra che nutriamo nel produttore e negli ispettori della qualità.

Nell’alzarci dal letto, ci fidiamo del costruttore dell’edificio e della solidità del pavimento, quando apriamo il rubinetto per lavarci confidiamo che non ne fuoriesca una vipera, e addentiamo pane tostato e marmellata senza farli assaggiare a una cavia perché siamo ragionevolmente convinti che non contengano stricnina. Ogni volta che attraversiamo la strada con il semaforo verde, inconsciamente confidiamo nel fatto che qualcuno a noi del tutto ignoto non passi con il rosso. In sintesi, senza fiducia non usciremmo di casa con lo smartphone ma con la pistola, non saliremmo in ascensore, non mangeremmo cibo crudo, non affitteremmo la nostra stanza a un forestiero, non useremmo la carta di credito su una piattaforma di pagamenti elettronici che non sappiamo nemmeno da chi sia gestita. La fiducia è un pavimento di vetro che ci consente di camminare senza cadere.

Come ben pone in luce Niklas Luhmann, senza fiducia non potremmo nemmeno alzarci dal letto la mattina perché nessun individuo sarebbe in grado di sopportare un confronto diretto e continuo con la complessità del mondo. Il sistema «fiducia», così descritto, sostituisce l’insicurezza esterna con una relativa sicurezza interna, e ci aiuta a tollerare le incertezze ambientali e relazionali. Siamo però certi che le fiducie descritte siano consapevoli e non automatiche?

In fondo, non tutto può essere vagliato in modo meticoloso: abbiamo energie e tempo limitati e non ne verremmo a capo. Se dunque alcune cose decidiamo di darle per assodate, ce ne sono molte altre che invece meritano un’attivazione e una consapevolezza ben diversa. Fidarsi è una scelta generosa ma anche l’esito di una valutazione e in questo senso è qualcosa di molto diverso dall’affidarsi o dallo sperare. Inoltre, fidarsi delle cose è molto meno impegnativo in termini psicologici che fidarsi delle persone. Come ben espresso da Katherine Hawley, «quando inizi a pensare che il tuo computer cospiri contro di te, è tempo di prendere una boccata di aria fresca».

Eppure, a dispetto della teoria, viviamo da tempo in un contesto segnato da diffusa sfiducia nella quale gli altri, il futuro e noi stessi ci appaiono sempre più inconoscibili e in qualche maniera vulnerabili. Quanto c’è di oggettivo, in tutto ciò, e quanto di soggettivo? Perché alcuni di noi si fidano anche in contesti apparentemente minaccianti e altri sviluppano forti diffidenze in situazioni che sembrerebbero prive di rischi?

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Un partito a caso-cortez .La grottesca deriva anticapitalista del Pd e la sua surreale trasformazione in Dp

Fondato da Walter Veltroni, il Partito democratico sta perdendo ogni sfumatura liberaldemocratica, ma per aggiungere stravaganza a stravaganza i nostalgici e la ditta sembrano comunque preferire come segretario il riformista Bonaccini alla candidata di sinistra Schlein.

«Pd o Dp?»: la battuta non è surreale, perché anche se sembra incredibile scivolare dal fondatore del Partito democratico Walter Veltroni a quello di Democrazia proletaria Mario Capanna sta venendo fuori l’anima “anticapitalista” che ancora alligna come un rampicante su qualche muro del Nazareno.

Ma forse – ragiona qualcuno – è persino meglio che «i matti» (definizione non nostra, ndr) siano usciti subito allo scoperto così da determinare una reazione contraria e si possa passare a una fase più seria della discussione. E infatti ieri c’è stata una reazione e ci sarà nei prossimi giorni.

Certo è che ora che la nave è senza timoniere dalla stiva esce di tutto, compresa una trita citazione di Lenin – ma questo è colore – e vari assalitori del profilo riformatore del partito creato al Lingotto, con Enrico Letta silente che ormai non governa nulla mentre il nuovo arrivato Roberto Speranza ha dato la linea: «Bisogna espungere il liberismo che si è insinuato nel Partito democratico».

C’è da chiedersi a questo punto come il suddetto Veltroni, che pure ha lasciato la politica attiva, possa continuare a restare in silenzio di fronte a questo tentativo di seppellire il “suo” Partito democratico, che tra alti e bassi in questi anni è riuscito a mantenere un profilo riformista, sociale e liberale.

Ma a parte questo, dai toni emersi nella prima riunione dei “saggi” che hanno l’improvvido compito di scrivere un nuovo Manifesto del partito – giacché ritengono superato e pure «brutto» quello del 2008 scritto da Reichlin, Prodi, Mattarella eccetera – è abbastanza verosimile che continuando così la scissione diventerebbe inevitabile e bisognerebbe porsi semmai il problema di come gestirla: cosa accomuna le idee di Nadia Urbinati a quelle del documento laburista di Marco Bentivogli? O fra la linea di Peppe Provenzano e quella di Giorgio Gori?

Qui è veramente difficile il caro vecchio compito dei mediatori, quello che tradizionalmente alla fine s’impone “per il bene del partito”, giacché è arduo fare sintesi tra chi vuole (ancora!) superare il capitalismo e chi ritiene che il medesimo capitalismo abbia bisogno di riforme, ma che è il mondo in cui viviamo e vivremo.

Marx e Lenin a parte, bisognerebbe piuttosto capire se questo Comitatone abbia la legittimità per scrivere completamente la nuova “Costituzione” finendo in questo modo per sostituirsi ai candidati: hanno creato un ginepraio tale che in teoria si potrebbe finire con un Manifesto anticapitalista e un segretario riformista. Meccanismi da manicomio.

È difficile in questo senso dare torto a Stefano Ceccanti, uno dei “saggi”, pronto ad andarsene se non verrà chiarita la funzione del Comitatone che rischia di riscrivere non solo i valori ma anche regole e contenuti, come per esempio le primarie: sarebbe «un’invasione».

Tutto questo sta avvenendo sotto gli occhi di Enrico Letta, che ritiene di poter fare l’arbitro del Congresso ma che ha la responsabilità di aver nominato un Comitatone di saggi sbilanciato a sinistra, come si è visto nella riunione di ieri.

Per la prima volta da tanto tempo si risentono i riformisti “ulivisti” e quelli più recenti come Giorgio Gori: «Il messaggio degli elettori non è “cambiate il Manifesto”, casomai “cambiate la classe dirigente”», ha detto ad Huffington Post. «Avremmo bisogno di un’economia più dinamica e invece discutiamo dell’ordoliberismo, cioè di un fantasma».

Nella confusione generale resta un mistero perché gli “anticapitalisti” tipo Andrea Orlando, Gianni Cuperlo, Laura Boldrini, che nella riunione hanno avuto il fragoroso apporto di Nadia Urbinati e di Emanuele Felice, non appoggino Elly Schlein, la candidatura più di sinistra che verrà formalizzata domani a Roma. La eventuale vittoria della neodeputata bolognese – ha annunciato Gori – metterebbe in discussione la sua appartenenza al Partito democratico. Vedremo quello che succederà nelle prossime riunioni del Comitatone, ma se il buongiorno si vede dal mattino è prevedibile come minimo che si spaccherà.

Può darsi che sia stata una falsa partenza, può invece darsi che sia stato l’inizio della fine, la “deriva francese”, appunto una Democrazia proletaria 2.0, che darebbe forza a Giuseppe Conte e paradossalmente anche a Calenda e Renzi, che proprio su questa scommettono per portare avanti la bandiera riformista.

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