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CONTE HA MENTITO.SPUNTA L’AUDIO.LO SAPEVO DA GENNAIO.

Dopo la bufera scatenata dalle dichiarazioni riportate da L’Identità di oggi sul video Renzi-Mancini all’autogrill, Giuseppe Conte ritratta.

E ci manda una nuova dichiarazione, in cui sostiene di aver confuso le date.

Che Giuseppe Condono Conte fosse un pagliaccio lo avevamo capito già da un po’.

Stasera lo ha confermato ancora una volta.

Il segreto di rustichella. Giuseppe Conte è intervenuto sulla vicenda autogrill in una intervista al quotidiano l’identità diretta da Tommaso Cerno.

E Conte dice che viene a conoscenza del fatto quando sta finendo l’esperienza del Governo. La cosa è interessante. Ma come faceva Conte a sapere dell’incontro all’autogrill con Mancini “verso la fine del suo governo”, quando la notizia diventa pubblica a maggio del 2021? A maggio 2021 il premier era già Draghi da tre mesi… strano, no? Conte si confonde oppure mente oppure nasconde qualcosa?La vicenda de Il Mostro continua a essere più attuale che mai…

CONTE SAPEVA “l’ho saputo da Report” e poi spunta l’audio nel quale confessa “lo sapevo da Gennaio” 4 MESI PRIMA .Seguivano Matteo Renzi? Cosa c’è sotto? Di sicuro Conte CADE IN CONTRADDIZIONE.
STA EVIDENTEMENTE MENTENDO.GIÀ DA FINE GENNAIO

C’è qualcosa che #GiuseppeConte dovrebbe chiarire: in questa intervista sostiene di aver saputo del caso #Autogrill dalla #tv quando stava terminando il suo Governo, a fine gennaio 2021.

Come faceva #Conte a conoscere la vicenda già a gennaio, se la puntata di #Report è di maggio?

Guerra intestina per le nomine ai #servizisegreti, manovra per delegittimare un #senatore della Repubblica che stava facendo cadere il governo, #testimonianze e #versioni cangianti e #personaggi di fantasia, #segretidistato quasi fosse l’intrigo del secolo. Quand’è che ci dite la benedetta #verità?

Auguriamoci che sia perché è bugiardo perché se fosse vero che Renzi era attenzionato da mesi , sarebbe di una gravità inaudita. Ed e peu questo che su questa faccenda,hanno messo il segreto di stato,per insabiare tutto.

Come tutti i bugiardi seriali, dice bugie poi non si ricorda cosa ha detto e afferma il contrario! ma ha tradito tutti. E siede in parlamento e parla parla parla raccontando favole e facendo l’imbonitire di se stesso. Certamente non è l’unico FALSARIO ma onestamente non dovrebbe apparire in parlamento anche se “ nominato” per meriti politici (????????) RDC ????? Che vergogna e disgusto anche solo a vedere la sua faccia .

Sono le bugie del seriale, non ricordano mai cosa hanno detto di falso. Vergogna e d’altronde il lavoro di avvocato si addice bene, e nel loro abbitat dire sempre il falso. Ora dirà che lui ha le visioni, che prevede il futuro…. non dirà mai che è un bugiardo, un mentitore!!! Il poverino non sa che chi mente è si, un bugiardo, MA deve essere intelligente e possedere buona memoria…… altrimenti è solo un bujardo da quattro soldi……Questo è il classico tip che parla tanto senza dire niente eppure riesce a prendere tanta gente per i fondelli. Compresi i e landini bettini dalema bersani letta orlando e tutta quella robaccia li, che vogliono continuare ad allearsi con questa robaccia qui o c’e’ dell’altro ???

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Carta Bianca.Una vergogna. Come fa Renzi a resistere a tanti attacchi , non è da tutti.

Bianca Berlinguer invita Matteo Renzi a CartaBianca per fargli domande, non farlo rispondere, parlargli sopra, farlo prendere in giro da Senaldi e far fare analisi politica a Gramellini. Meno male che Renzi non demorde e nonostante i tre attaccanti spiega il suo punto di vista. “Oh ragazzi datevi una calmata!” dice Renzi ad un certo punto.

Si potrebbe pensare che sia inutile tanto sforzo, ma andare in tv serve a far ascoltare le proprie posizioni politiche e le proprie idee. E non è poco! #ItaliaViva# TerzoPolo# RenewEurope Ma santa pazienza, quali colpe dobbiamo espiare per doverci sorbire il montanaro Corona che disquisisce su tutto e di più incalzato dalla Bianchina? E questo sarebbe il servizio pubblico di RAI3?

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Ho visto la trasmissione per il tempo che c’è stato il nostro #MatteoRenzi, ma è stata una sofferenza vedere la “Bianchina” fare di tutto per zittirlo. Trasmissione di una maleducazione inaudita, non si è mai visto una giornalista che fa domande e non lascia rispondere il suo interlocutore addirittura lo zittisce, brutta pagina di giornalismo.

Solo che non sanno che Renzi li mette tutti al muro ,.li distrugge .devono vivere ancora cento anni per arrivare alla sua intelligenza. Ma purtroppo c’è anche tanta gente, ripeto purtroppo con le fette di salame sugli occhi, e il cervello in salamoia, che se vede com’è andata stasera finisce per credere ai tre che l’hanno attaccato e soprattutto alla Berlinguer che non lo ha lasciato parlare.

Ma che programma del C…O. Non c’è un programma dove se l’inviato è Renzi non riesca far a meno di fare domande e non aspettare la fine di una risposta, un esempio di educazione esemplare.

Trasmissione da schifo Conduttrice inappropriata e molto boriosa a tratti euforica, figuraccia pessima, non ha tenuto neanche conto di avere un cognome che richiedeva un comportamento più consono.Ho fatto questo sacrificio perché c’era Renzi.

Renzi fa bene ad andare a tutte le trasmissioni dove lo invitano perché così si fa vedere dagli italiani . Certo che andare da una che sta per più di mezz’ora a parlare con Mauro Corona ci vuole tanta forza d’animo. Bravo Matteo sei sempre il migliore ed è per questo che ti odiano.

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“Nemmeno come stagista…”. Sberla europea per Di Maio.

Ma non vi sembra! Strano però che fino a poco prima che uscisse dal movimento per tutti i suoi compari era l’uomo del destino, dopo esserne uscito è diventato (ma lo è sempre stato) il peggior politico mai apparso in Italia. Comunque era proprio quello il suo destino , peccato che si è arricchito ! .Con lui abbiamo toccato il punto più basso per la n ostra Nazione…per fortuna ce ne siamo liberati …spero per sempre. Il peggior ministro degli esteri ITALIANO e il governo europeo se ne vergogna, mentre quello ITALIANO cerca solo i peggiori. Di Maio non sa nemmeno dove sta il Golfo Persico, oltretutto avrebbe bisogno di un accompagnatore, potrebbe perdersi! Ma come si fa a proporre un incapace del genere?

Dai gente! Quali meriti ha questo signore per andare a rappresentarci in Europa con un tale incarico? Siamo allo stravolgimento delle competenze e del merito. L’hanno bocciato gli elettori italiani, dandogli il suo personale e giusto valore! Per quello che è…”un ignorantone” fortunato…. imbroglione di primo grado che grazie alla “politica” populista è diventato ministro. Ma mon è il solo e non sarà l’unico… l’Italia purtroppo si merita anche questo.Si sono accorti solo ora mi meraviglio chi l’ha fatto ministro degli esteri a dimenticavo Conte. OK RISOLTA LA GABOLA. NON SA FARE ALTRO. PS: ECCONE UN ALTO CHE SERVIRBBE MANDARE HAI LAVORI FORZATI.

“Nemmeno come stagista…”. Sberla europea per Di Maio

Non c’è pace per Luigi Di Maio che, dopo la sua candidatura a inviato speciale Ue nel Golfo Persico, continua a incassare sberle ovunque si volti. Dopo le perplessità espresse dal quotidiano francese Le Monde, che aveva giudicato come poco seria la proposta del suo nome, e le dichiarazioni impietose del capo del Centro di ricerca sulle politiche pubbliche di Dubai Mohammed Baharoon, il quale aveva addirittura parlato di “senso dell’umorismo europeo”, arriva adesso l’interrogazione di tre eurodeputati al Consiglio Ue.

Insomma, nessuno sembra proprio volere l’ex grillino come rappresentante in trasferta nel golfo dell’oceano Indiano. Ieri, lunedì 5 dicembre, gli eurodeputati Piernicola Pedicini, Ignazio Corrao e Rosa D’Amato (i primi due di Verdi/Alleanza Libera Europea, la terza del Movimento 5 Stelle) si sono rivolti al Consiglio dell’Unione europea per chidere spiegazioni in merito alla candidatura di Di Maio. E non finisce qui. Pare infatti che l’interrogazione presentata dal trio abbia riscosso un discreto successo, specie fra le fila di Verdi, Socialisti, Gruppo Misto e Liberali.

La domanda dei tre eurodeputati è piuttosto semplice. Pedicini, Corrao e D’Amato si chiedono su che basi il nome di Luigi Di Maio possa essere ritenuto adatto a ricoprire un ruolo di rappresentanza. Le parole degli eurodeputati sono alquanto dure: “Perché una persona come Di Maio, che avrebbe a malapena i titoli per uno stage, dovrebbe rappresentarci in un’area strategica come quella del Golfo?”.

Considerate le polemiche scaturite a seguito della proposta di Luigi Di Maio, Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha deciso di lavarsene le mani, lasciando la decisione al Consiglio.

Piernicola Pedicini, tuttavia, davvero non capisce cosa abbia portato alla scelta dell’ex Movimento 5 Stelle, e parla di “nome sprovvisto di credibilità, titolo di studio e competenze specifiche”. Non pago, l’eurodeputato arriva a parlare di “ragioni di bottega”, “un patto da Prima Repubblica, probabilmente il prezzo pagato per il tentativo, miseramente fallito, di affossare Conte e il M5S”.

Con simili argomentazioni, l’ex ministro degli Affari esteri è stato praticamente colpito e affondato. “Senza alcun requisito, l’ex capo grillino si potrebbe ritrovare a scalzare candidati che, a differenza sua, vantano lauree, titoli, competenze acquisite sul campo, conoscenza delle lingue straniere e anni di esperienze diplomatiche”, ha poi continuato ad attaccare Piernicola Pedicini, come riportato dalle agenzie di stampa.

La nota dei tre europarlamentari si chiude con una considerazione: “Sarebbe l’esempio peggiore, l’ennesimo, che può dare il nostro Paese agli occhi del mondo intero, oltre che a quelli di tantissimi ragazzi che credono nella meritocrazia e, per questo, fanno sacrifici enormi per maturare una formazione adeguata con la speranza di avere successo nel mercato del lavoro”.

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Dl ministeri, ok maggioranza a ordine del giorno di Azione

Passa con il voto della maggioranza (184 sì, 43 no, 67 astenuti) l’ordine del giorno del Terzo Polo sulla riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo presentato alla Camera sul dl Ministeri. No del M5S e astensione di Pd e Avs.

Il testo, di Roberto Giachetti e Enrico Costa, impegna il governo “ad operare una significativa riduzione del numero di magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, con particolare riferimento a quelli che svolgono funzioni amministrative e alle posizioni per le quali non è tassativamente richiesta dalla legge la qualifica di magistrato”.

Poco dopo i voti della maggioranza, cui si sono aggiunti anche quelli del Pd, hanno fatto passare un altro ordine del giorno in materia di Giustizia presentato dal Terzo Polo e su cui Avs si è astenuta mentre il M5S ha votato contro.

Il testo, approvato con 248 voti a favore, 45 contrari e 12 astenuti, è relativo alle conferenze stampa ed ai comunicati stampa delle Procure della Repubblica, su cui si chiede che l’Ispettorato del ministero della Giustizia effettui un monitoraggio.

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Giorgia Meloni sceglie la linea dura

Giorgia Meloni sceglie di giocare in attacco e rivendica la linea dura. Sente di essere “accerchiata” qualsiasi decisione decida di prendere insieme al suo governo, ma è pronta ad andare avanti e non arrendersi.

Giorgia Meloni gioca in attacco e si schiera contro l’accerchiamento sulle iniziative del governo

Giorgia Meloni è pronta a giocare in attacco, pur senza aprire fronti diretti, visto che il ruolo impone prudenza. Pubblicamente si è limitata a un intervento istituzionale in video-collegamento a “L’Italia delle Regioni“, ma in privato non ha nascosto il fastidio per quello che considera un “accerchiamento” su “qualunque iniziativa prenda il governo“. “Sono a Palazzo Chigi da un mese e mezzo. Solo sei settimane in cui abbiamo preso in mano un Pnrr in affanno, abbiamo scritto a tempo di record la manovra e presenziato a un G20 dall’altra parte del mondo in cui abbiamo avuto bilaterali fondamentali con Biden e Xi Jinping” è la sua considerazione. Ma ci sono diverse polemiche riguardo alcune iniziative annunciate in campagna elettorale, primi fra tutti la frenata al reddito di cittadinanza e l’obbligo all’uso del Pos.

Meloni rivendica la linea dura: “Replicare colpo su colpo”

Giorgia Meloni ha scelto la linea dura, per “replicare colpo su colpo“. Per questo ha mandato avanti Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che si è fermato a parlare con i giornalisti, tirando una serie di affondi non casuali. “Bankitalia è partecipata da banche private, ha una sua visione legittima” ha spiegato, parlando delle critiche sulla manovra. “Ho visto un filmato diffuso da Giuseppe Conte di una signora con sei figli che perderebbe il reddito, dovrebbe sapere che non è vero” ha poi attaccato, in tema reddito di cittadinanza. Le parole sulla Banca d’Italia aprono un vero e proprio solco. Posizione a cui fa seguito la presa di distanza del vicepremier Antonio Tajani. Il ministro degli Esteri ha dichiarato che quella di Bankitalia “è la posizione di un funzionario in audizione” in Parlamento. Questa linea del governo non è gradita a molti. Non è apprezzata da Mario Draghi e non è condivisa dal Quirinale. Resta solo il cambio di marcia di Palazzo Chigi, che dovrà cancellare l’intervento sul Pos, impegno legato alla realizzazione del Pnrr. La premier vuole seguire una linea dura e giocare d’attacco, senza però esporsi in prima linea.

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Sulla presunta riedizione dell’eterna sfida a sinistra fra D’Alema e Veltroni.

Bonaccini non ha la finezza e il cinismo del primo, mentre in Schlein non trovo assonanze con il secondo

Non mi convincono chi sostiene e dicono ‘’Dopo mezzo secolo la sinistra italiana è ancora lì: D’Alema vs Veltroni’’, riconduce – con un ampio volo pindarico – l’attuale dibattito del Pd alla contesa perenne tra due leader, ormai storici, come Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Stefano Bonaccini ha svolto un ruolo importante nel determinare, con la vittoria nelle elezioni regionali, l’interruzione della “resistibile ascesa” di Matteo Salvini e ha in dote la concretezza di coloro che Palmiro Togliatti definiva “i bravi compagni dell’Emilia rossa”, ma non ha la finezza e il cinismo di Massimo D’Alema, che, non lo si dimentichi mai, è stato l’unico ex comunista a entrare a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio, grazie a un’operazione trasformistica, orientata niente meno che da Francesco Cossiga, di una parte del centrodestra, dopo la crisi del primo governo Prodi di cui Walter Veltroni era vice presidente del Consiglio.

Non ho capito se Martini pensi a una qualche assonanza tra Elly Schlein e Veltroni. Sarebbe un paragone che non regge perché Veltroni – che dichiarava di non essere mai stato comunista – si ingegnò a importare modelli – anche organizzativi e procedurali, come le c.d. primarie – che guardavano al di là dell’Atlantico, facendo del Pd il partito nel quale si riconosceva gran parte dell’establishment e delle classi dirigenti. Quello stesso ruolo che il Pd di oggi – il partito che “risale in disordine e senza speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza” – vorrebbe abiurare per andare a caccia “dell’isola che non c’è” con Elly Schlein.

Sia detto per inciso: credo che non ci sia un solo partito al mondo che si penta di aver governato (democraticamente) per dieci anni sugli ultimi undici. Poi – lo sappiamo – anche agli importanti leader politici è consentito cambiare opinione, quando mutano le circostanze storiche, economiche e sociali. Anzi è bene che sia così perché, in politica, gli errori sono sempre la conseguenza di analisi sbagliate. Lasciando a ciascuno la sua libertà d’opinione su quale sia stato il miglior D’Alema – se quello di adesso o quello rievocato da Fabio Martini – resta comunque assodato che i fatti hanno la testa dura.

Il governo D’Alema mandò gli aerei a bombardare Belgrado. In precedenza, quando era segretario del PdS, tentò di normalizzare i rapporti con Silvio Berlusconi e, d’intesa con il Cav, presiedette la Commissione bicamerale sulle riforme quando sembrò a portata di mano un’intesa, che venne fatta saltare proprio dal leader di Forza Italia. D’Alema, sia da capo di partito che da premier, polemizzò a lungo con Sergio Cofferati, allora potente e incontrastato leader della Cgil, anche sui temi del lavoro: “Proprio se vogliamo spingere in avanti una politica per il lavoro, noi dobbiamo avere il coraggio di un’opera di rinnovamento”, sosteneva il leader maximo. E poi continuava: “Ho sentito Cofferati, anche a differenza di altre occasioni, più chiuso e più sordo. Noi ci sentiamo sfidati dalla realtà ad una necessaria riflessione critica. La mobilità, la flessibilità, sono innanzitutto un dato della realtà. E persino qualcosa che corrisponde a un modo diverso, nella nuova generazione, di guardare al lavoro e al proprio rapporto con il lavoro”.

Affermazioni eretiche anche adesso. Nel 1998 a Firenze nell’assemblea degli Stati generali della sinistra, l’allora segretario del Pds Massimo D’Alema lanciò la così detta Cosa 2, ovvero un “cantiere politico” per un nuovo partito federativo della sinistra che unisse ex Pci, socialisti e riformisti cristiani. Furono cambiati nome (Democratici di Sinistra) e simbolo (la rosa del socialismo europeo al posto della vecchia falce e martello, ai piedi della quercia). Al Congresso di Pesaro nel 2001 Massimo D’Alema sostenne la candidatura alla segreteria di Piero Fassino contro Giovanni Berlinguer a capo di una mozione di minoranza promossa e sostenuta da Cofferati e dalla Cgil. Un destino beffardo ha voluto che toccasse soltanto a due segretari del Pci-Pds-Ds-Pd – D’Alema e Renzi – di essere contrastati dalla Cgil e dai suoi leader di turno. Nonostante che nessun ex Pci, dopo D’Alema, sia stato in grado di arrivare alla guida di un governo, il leader maximo ha pagato questo primato tirandosi addosso molte critiche, invero ingenerose, non solo a causa del suo carattere, ma soprattutto della sua politica.

Nel 1999 D’Alema riuscì a convocare a Firenze altri cinque capi di Stato e di governo: Bill Clinton, Tony Blair, Lionel Jospin, Gerhard Schroeder, Fernando Cardoso – e le altre personalità – da Hillary Clinton al presidente della commissione europea Romano Prodi. Allora non era “controrivoluzionario”, come adesso, parlare di terza via. In quegli anni D’Alema invitava gli imprenditori a crescere, a investire e ad arricchirsi. Li spronava a segnalare gli ostacoli incontrati sul loro cammino affinché il governo potesse “toglierli di mezzo” (sono parole che abbiamo sentito anche di recente da un’altra persona). I maligni andavano in giro dicendo che Palazzo Chigi era l’unica merchant bank dove non si parlava inglese. Le scarpe indossate dal premier erano al centro dell’attenzione dei pettegoli e dei perdigiorno.

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ARIDATECE WALTER

Sono smarriti senza più nessun appiglio valido per incantare le folle che sono ormai altrove.Non vogliono rendersene conto ma presto dovranno loro malgrado.

Rileggendo il Manifesto del Pd di Veltroni, i limiti sono nelle ricette, ma non nella missione. La finta discussione dell’oggi in un Congresso segnato dal radicalismo parolaio e dal riformismo senz’anima. Prendiamola sul serio, come se non fosse un grande imbroglio, questa discussione sul Manifesto del Pd che dovrebbe accompagnare la famosa “fase costituente”, finta pure quella perché tutto si riduce al rientro di chi ha fatto una scissione, peraltro fallita senza tante autocritiche. E mai si è visto che gli scissi che cantarono Bella ciao con Piero Grasso, prima di ricantarla con Elly Schlein, al momento del ritorno ambissero ad assumere una guida politica e ideale del soggetto abbandonato, in questo caso su parole d’ordine “anticapitaliste”.

Come al solito il PDIOTA si inventa una narrazione. Bravino. Ma debole. Renzi ha avuto la maggioranza degli iscritti e degli italiani alle primarie con 1.800.000 cittadini. Il Pd è il suo partito. Il programma c’è e il futuro lo stiamo costruendo. Ciao PIDIOTA. Anzi #ciaone .Il portavoce di D’Alema che ha scritto questo articoletto come sempre intriso di veleno se ne faccia una ragione. Al di là della sua bile straripante,sostenendo il PD è vivo e vegeto. Le nuova creature dei suoi fururi leader mi sembra già morta prima ancora di nascere.

Grande Veltroni, caro PIDIOTA. Peccato che i tuoi idoli e quelli della tua direzione lo fecero fuori senza troppi complimenti ma come fecero sucessivamente con l’inico leader attualmente in circolazione,ITALIANI,per chi fa lo gnorri! dal nome MATTEO RENZI, e senza il minimo rispetto della volontà degli elettori PD. Per fortuna la gran parte (NON TUTTI PURTROPPO) di quei traditori se ne sono andati per sempre.

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HASTA SIEMPRE ELLY!

Elly Schlein ha appena avanzato la propria candidatura alla segreteria del Partito democratico, ma ha già vinto.

Certo la posa e l’eloquio da assemblea studentesca anni Novanta strappano un sorriso, la location trendy “de sinistra” e la modalità “town hall meeting” sulle note di “Bella ciao” più che Barack Obama fanno venire in mente Diego Bianchi in arte Zoro, ma sarebbe profondamente miope non riconoscere che la parlamentare dalle molte cittadinanze (italiana, svizzera, statunitense) e dalle poche tessere (non risulta iscritta al partito che si propone di guidare) abbia imposto la propria egemonia culturale, con una forza tale da far impallidire il mitologico Quaderno XXV di gramsciana memoria.

Il tema unico della ventura campagna congressuale del Pd sarà il tasso di maggiore o minore corrucciata avversione al “liberismo” (sul punto occorre osservare come il suffisso “neo” abbia lasciato il campo al più iniziatico “ordo”, ma si sa anche le assemblee da liceo occupato talvolta si piegano alle mode, non solo lessicali).

A dire il vero più che il liberismo a essere in uggia dalle parti di Elly pare il capitalismo tout court, ma comprendiamo che a dirlo chiaramente si rischi di indisporre qualcuno e, allora, dagli di italicissima ipocrisia.

A essere impertinenti, alla cosmopolita candidata verrebbe da chiedere dove lo ha visto tutto questo liberismo nel Paese che vanta:

1) il quarto debito pubblico ai mondo.

2) Più della metà del Prodotto interno lordo formato da spesa pubblica.

3) il Total tax rate oltre il 60 per cento (media Ue 40 per cento).

4) Più di 1/3 di capitalizzazione della Borsa nelle mani dello Stato.

5) La 57’ posizione nell’Economic Freedom Index.

Domande fondate su dati di fatto incontrovertibili, ma che comprendo avrebbero guastato la scenografia da film di Luca Guadagnino (Dagospia, cit.).

Hasta siempre Elly!

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IL GOVERNO DELLA FERMEZZA POTREBBE FERMARE L’ITALIA.

Per agevole la narrazione appelleremo le parti in commedia come fratellini (FdI), legulei (Lega) e forzisti (Forza Italia), consci che nel nome (come nell’appellativo) grondino tutte le contraddizioni politiche ed antropologiche italiane. Già da qualche mese gli italiani hanno scelto una diversa maggioranza, ed almeno nella forma e nei modi s’aspettavano sorgesse un diverso mattino. Se l’inizio della giornata non c’inganna, purtroppo, l’approccio è lo stesso dei precedenti esecutivi. Medesimo con un briciolo di saggezza alla Don Abbondio ovvero, come s’orecchia in ambienti romani, “famo i fraticelli, famo i democristiani, stamose boni, non tocchiamo palla, lasciamo che a sbagliare sia l’avversario”. Stessa musica a Napoli e provincia “all’ordine facite ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora” (non vi risparmiamo il resto dell’adagio). Necessita recitare una parte per la legislatura, per irretire il consenso dell’alta dirigenza di Stato ed essere riconfermati tra cinque anni”. A Bari tutti insieme concordi che col potere devi fare la “facce du càn aqquann fusce”. La musica è la stessa a Milano come a PalermoGenova e Venezia.

In parole povere, chi ha vinto le elezioni, col minor afflusso alle urne della storia italiana, intende lavorare solo nella direzione di conquistare le simpatie dell’alta dirigenza di Stato. E l’uomo della strada, ed il cittadino disoccupato e vittima di burocraziamagistratura e fisco? Per quest’ultimo necessita non fare nulla, e per evitare di tirarsi addosso le ire di giornali e Partito democratico, di Commissione Ue e poteri bancari vari. Tutto questo perché i coraggiosi fratellini, i timorosi legulei ed i (solo a parole) forzisti temono si spezzi il dialogo con i funzionari dello Stato d’area Pd. “Stanno lavorando a creare un certo tepore con il Pd, soprattutto con dirigenza di Stato e magistratura, e dopo penseranno agli italiani” chiarisce uno che lavora alla Camera dei deputati. Ecco che i membri di governo e maggioranza prediligono presentazioni di libri, manifestazioni e premi con vertici della magistratura, intellettuali e dirigenti Rai già d’aria Pd (forse anche ex 5 Stelle) piuttosto che farsi beccare in pubblico con chi avversava il passato governo.

Perché fratellini, legulei e forzisti sanno bene che l’acronimo Pd va inteso come Partito dei dirigenti, soprattutto di Stato, ma anche di grandi aziende come banche e multinazionali.

E questo sarebbe un comportamento da democristiani? Evidente che gran parte dei giovani politici non conosca la storia, e certamente non sarà giunto loro l’eco della forza con cui Amintore Fanfani difendeva in ogni sede (anche europea) gli interessi dell’agricoltura italiana, anche a costo di inimicarsi i potenti francesi e nordeuropei dell’epoca. E nemmeno immaginano come i vari Enrico MatteiAlcide De Gasperi e Aldo Moro combattevano contro i poteri multinazionali occidentali per scongiurare venissero calpestati i patrimoni italiani. Ciliegina sulla torta è che questa maggioranza reputa possa anche tingersi di sinistra inchinandosi ai voleri della magistratura; dimenticando la lezione politica di Palmiro Togliatti che, da ministro di Grazia e Giustizia, elaborava nel 1946 l’amnistia e l’indulto per reati politici, militari e comuni, convinto che la magistratura (ormai passata tutta col nuovo regime) sarebbe stata cattiva con gli italiani, e necessitasse invece una pacificazione nazionale. Quel coraggioso gesto politico di Togliatti portava tantissimi fascisti ad iscriversi al Partito comunista italiano, anche per disprezzo verso il radicato opportunismo della burocrazia, come di magistrati, industriali e dirigenti italiani. Mattei, De Gasperi e Moro applaudirono Togliatti. Poi iniziava una virtuosa (e anche dura) competizione tra democristiani e comunisti: basterebbe leggere qualche resoconto dell’epoca di Giovannino Guareschi (riassunse poi in satira in Don Camillo e Peppone) per capire cos’era il coraggio di fare politica.

Perché, forse, fratellini, legulei e forzisti hanno un senso confuso di come si sia creata la “pax democristiana” che, solo per alcuni aspetti, riproponeva l’alchimia della “pax romana” (quella dei tempi di Augusto): una sorta di pace che il dominus politico imponeva con autorevolezza ai vari poteri istituzionali (magistratura, burocrazia e simili) per il bene del popolo. Anche il democristiano Ciriaco De Mita aveva la forza, con autorevolezza, di mettere tutti gli istituzionali a tacere per il bene del lavoro in Irpinia. Lo stesso facevano Silvio Gava (padre di Antonio) ed Achille Lauro per il bene di lavoratori, operai ed artigiani napoletani. Nessuno tra loro si diceva timorato da fisco, giudici, banchieri e tronfi burocrati vari. Nessuno di loro era un Don Abbondio, piuttosto un Fra Cristoforo contro le angherie e le bravate della dirigenza di Stato.

Diversamente, molti membri di questa maggioranza corrono il rischio di passare alla storia come macchiette; come quei due pentastellati che si salutavano nei corridoi istituzionali con le mani giunte, ripetendosi rispettivamente con voce monastica: “Nel rispetto delle normative anti-Covid”. Una sorta di mantra pseudobuddista sul tipo di “nam myoho renge kyo”, una riedizione del “sutra del loto” in chiave sanitaria che ci auguriamo non riascoltare dai giovinetti di questa maggioranza. E non si vorrebbe che, per l’ennesima volta, le scelte di un governo avvengano sulla pelle dell’uomo della strada, del cittadino: questa volta reo di aver votato contro i poteri consolidati. Per ingraziarsi questi ultimi, fratellini, legulei e forzisti potrebbero anche legiferare contro i cittadini?

Certo, perché la classe politica degli ultimi trent’anni fa come Luca Palamara, guarda al popolo solo quando è fuori dai palazzi del potere.

Ecco perché l’opposizione gode sonni tranquilli, lasciando che il lavoro d’opposizione in trincea (nonostante il caso Soumahoro) lo svolgano i pubblici funzionari: a questi ultimi è stato demandato il compito di provocare incidenti di percorso che giustifichino la caduta del governo.

L’Esecutivo ha paura di agire, ecco perché Carlo Nordio non reputa opportuno passare alla storia azzerando l’enorme contenzioso per liti che pesa sul cittadino comune.

Nel suo discorso d’insediamento Giorgia Meloni ha citato l’esempio di Enrico Mattei, una storia che ci rimanda agli anni Cinquanta del secolo passato, quando la politica aveva l’autorevolezza di piegare l’alterigia della Pubblica amministrazione alle esigenze pratiche dei cittadini, del popolo italiano.

E se analizzassimo il quadro istituzionale degli ultimi dieci anni, potremmo anche considerare che Matteo Renzi ha assunto col tempo una nuova luce, soprattutto se paragonato a tanti leader contemporanei: il Governo Renzi è l’ultimo ad aver fatto una legge che ha permesso le assunzioni, i contratti di lavoro; dopo di lui nulla, solo chiacchiere su “reddito di cittadinanza” e “povertà sostenibile”. Renzi è un po’ come il Barone Haussmann, il grande politico che ha inventato l’urbanistica moderna di Parigi ed il riscatto industriale francese, ma anche quello accusato di aver contribuito con la sua visione napoleonica alla rivoluzione sociale, alla rivolta del popolo contro il potere come ebbe a dire Marx da Londra.

Ma la politica, nel bene e nel male, è osare, sognare: perché la politica e l’amore fanno platonicamente parte dell’agire visionario, e vanno oltre il campare alla giornata, l’evitare di destare il cane dell’avversario.

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I pagamenti elettronici in Italia: l’evoluzione della legge e il balletto delle sanzioni.

Dalla comparsa del concetto, relativo solamente ai bancomat, sotto il governo Monti fino alle ultime decisioni che l’esecutivo guidato Meloni sembra intenzionato a prendere.

Da Monti a Draghi, passando per Renzi e arrivando fino a Meloni. La storia della normativa italiana sull’obbligo – relativo agli esercenti – di accettare pagamenti attraverso lo strumento del POS (i cosiddetti “pagamenti elettronici”) è molto complessa e ricca di colpi di ostacoli che ne hanno ritardato l’applicazione. E ora, con le decisioni che sembrano esser state prese (questo è quanto previsto dal testo dalla Legge di Bilancio 2023 approvato dal Consiglio dei Ministri e che ora sarà al vaglio del Parlamento), sembra essere molto concreto il rischio di una nuova revisione. Soprattutto per quel che riguarda la soglia minima soggetta all’applicazione della legge (e delle relative sanzioni).

Partiamo dalla fine, ovvero dall’ultima dichiarazione fatta dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni in merito proprio all’obbligo POS e l’eventuale innalzamento a 60 euro della soglia minima per l’accettazione da parte degli esercenti dei pagamenti elettronici da parte dei clienti: «Quella dei 60 euro è indicativa, per me può essere anche più bassa. C’è ovviamente un’interlocuzione con la Commissione Ue, perché il tema del pagamento elettronico è fra gli obiettivi del PNRR, bisogna vedere come andrà a finire». Dunque, da Palazzo Chigi arriva una frenata allo stesso testo approvato dal Consiglio dei Ministri. Ovviamente, come accade sempre, quanto definito dal CdM è solamente un testo base che può essere modificato in sede di conversione in legge da parte del Parlamento. E nelle prossime ore dovrebbe arrivare anche il parere da parte della Commissione Europea che aveva chiesto proprio al governo italiano di procedere con tutte le norme possibili per limitare l’evasione fiscale (e ha vincolato parte dei fondi europei del programma Next Generation EU), compreso quella sull’obbligo POS.

Obbligo Pos, la storia della legge in Italia

Questa è l’attualità. Anzi, il futuribile. L’ultimo step che, al di là degli annunci, dei comunicati stampa e delle “bozze” prima della conversione (con potenziali modifiche) in legge da parte di Camera dei deputati e Senato della Repubblica. E come si è arrivati a tutto ciò? Il primo passo venne mosso dal governo guidato da Mario Monti, con il Decreto-legge 179/2012 (cosiddetto Decreto Crescita 2.0). In particolare, l’articolo 15 del suddetto dl – quello dedicato ai pagamenti elettronici – fa per la prima volta riferimento all’obbligo di accettare pagamenti elettronici. Ma si tratta solo di un contorno che, poi, ha visto l’intervento dei decreti ministeriali per l’applicazione. Nel gennaio del 2014, infatti, fu il Ministero dello Sviluppo Economico a inserire – per la prima volta, la soglia minima: sopra i 30 euro, gli esercenti dovevano accettare i pagamenti attraverso il POS. Ma un decreto successivo, posticipò l’entrata in vigore di questo obbligo dal gennaio 2014 al 30 giugno dello stesso anno. Ma senza prevedere alcuna sanzione nei confronti dei commercianti (o chi offre un servizio a pagamento).

Si inizia a parlare di sanzioni

Poi arrivò il tempo del governo guidato da Matteo Renzi, con Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. In quel momento storico, era la Legge di Bilancio per il 2016, si provò ad abbassare la soglia minima per l’accettazione dei pagamenti elettronici (non solo bancomat, ma anche carte di credito) dai 30 ai 5 euro (limite che non esiste più), ma introducendo una fattispecie: in caso di “impossibilità tecnica” oggettiva, il vincolo non era più un vincolo. Dunque, siamo agli albori dei reali effetti di quel tentativo di normativa per quel che riguarda l’obbligo POS. Per alcuni anni il tema venne sottaciuto, fino al 2019 quando il governo Conte-2 – con il decreto legge numero 124 di quell’anno, il cosiddetto “decreto fiscale” – inserì per la prima volta l’importo delle sanzioni per tutti gli esercenti che non accettavano pagamenti elettronici secondo le modalità e le soglie imposte dalla legge: multa base da 30 euro a cui si aggiungeva il 4% del valore dell’importo “rifiutato”.

Obbligo Pos, l’epoca Draghi e il PNRR

Le sanzioni, dunque, vennero scritte nero su bianco. Ma non vennero mai applicate. Perché all’epoca dei fatti, ci furono numerose proteste da parte degli esercenti e commercianti. Dopo una lunga contrattazione e una serie di interlocuzioni, l’esecutivo in carica decise si abrogare l’articolo 23 del “decreto fiscale” del 2019 e, dunque, le multe non furono mai applicate. Cosa accadde? Visto che la misura, fin dalla sua origine contrastata, era nata per cercare di porre un freno alla possibile evasione fiscale, senza le multe il cittadino aveva solamente una possibilità: segnalare all’Agenzia delle Entrate l’esercizio commerciale che non ha rispettato la “norma” e provvedere con controlli fiscali a carico dell’attività commerciale.

E alla fine arrivò Mario Draghi. Il penultimo governo in carica, quello tecnico guidato dall’ex Presidente della Banca Centrale Europea, è stato quello che ha messo in moto – attivamente – tutte le misure sull’obbligo POS. La data di inizio delle sanzioni (con l’annullamento di qualsiasi soglia minima, dunque vincolando qualsiasi esercizio commerciale all’accettazione di pagamenti in formato elettronico per qualsiasi cifra) era inizialmente prevista per il 1° gennaio del 2023. Una data indicata all’interno di un emendamento approvato all’interno del cosiddetto “decreto Recovery“, relativo i fondi europei da conseguire in merito al raggiungimento di alcuni obiettivi inseriti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Ma quella data fu anticipata: non più all’inizio del 2023, la al 3o giugno 2022. E le sanzioni previste erano quelle approvate dal governo Conte-2: 30 euro di base, oltre al 4% del valore del pagamento elettronico rifiutato.

Cosa succede ora?

Adesso, oltre alla possibilità – inserita all’interno della Legge di Bilancio 2023 approvata dal Consiglio dei Ministri (ma in fase di conversione parlamentare – di aumentare il tetto all’utilizzo dei contanti, il governo Meloni sta pensando di sospendere le sanzioni e di riportare la soglia minima dell’obbligo POS a 60 euro. Ma Giorgia Meloni, che in fase di CdM, aveva dato il suo via libera alla soglia dei 30 euro, ora sembra esser pronta a ripensarci. Il motivo? Dalle perplessità avanzate da Bankitalia a quel vincolo imposto – e relativo ai fondi europei – dalla Commissione Europea. Perché Bruxelles, entro pochi giorni, darà la sua valutazione sulle linee guida inviate dal governo italiano. E, per il momento si tratta solamente di voci, dalle stanze della Commissione è trapelata qualche perplessità proprio su uno dei temi fondamentali su cui si basa il PNRR: l’evasione fiscale e il contrasto attraverso i pagamenti elettronici.

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